C’è un tempo sospeso tra l’inverno e la primavera, quando il gran freddo è domato e la fioritura attesa. I contadini colgono l’attimo potando gli ulivi. Quei rami recisi sono i primi a bruciare nella notte del Santo Giuseppe. Ovunque si accendono falò, per far brace del verno e dar luce alla vita. Nelle nostre campagne, un rito si consuma nel rito. Il farsi adulti dei ragazzi è racchiuso in quel fuoco. Con un coraggioso salto ne trapassano le vive fiamme e si ritrovano uomini fatti. In verità, sono tanto spavaldi nel balzo, quanto dubbiosi sul mestiere del Putativo Padre. Senza essere biblisti, gli basta ricordare la solenne invocazione a lui rivolta in Assisi: “O gran Santo benedetto / fa’ ch’ognuno c’abbia ‘n tetto; / la lumaca affortunata / co’ ‘na casa lia c’è nata; se la porta sempre appresso / e preghiam per noi l’istesso. / Facce cresce su la schina / una camera e cucina”. Rammentando l’orazione, Peppe, Peppinello, Pino, Peppino si riunirono a Colderba e sentenziarono: il Castissimo Sposo falegname non fu. Trassero la loro conclusione senza sapere che la parola greca “téktōn”, usata dai Vangeli per Giuseppe, significa “carpentiere”. Per di più ignorando il protovangelo apocrifo di Giacomo, dov’è narrato l’itinerare del Divin Fanciullo al seguito di un babbo artigiano di paese in paese. Non si rassegnavano, inoltre, all’idea che Rigaccio del Col Caprile, pur vivendo solo, aveva tre somari, mentre la Sacra Famiglia un asino soltanto anche se erano in tre. Ragionavano tra loro, su quella fuga in Egitto, senza la minima consapevolezza di quanto periglioso fu il viaggio. Nel deserto, mare di sabbia, le sofferenze fisiche si unirono alla nostalgia e al timore d’essere raggiunti dai soldati di Erode o sopraffatti dai predoni. I nostri baldi giovani si preoccupavano unicamente di dover andare a Perugia per la visita militare. Ben altri pensieri nutrì Giuseppe in Heliopolis o forse Leontopolis. Sul delta del Nilo, s’inventò un nuovo lavoro che gli permise di mantenere degnamente, anche se in povertà, la famiglia. Vendette frittelle in strada per provvedere al sostentamento dei suoi cari. Correndo il giorno decimonono di marzo e non avendo maggiori apprensioni, Peppe e Pino dissertavano anche sulla brutta usanza cittadina d’impastare il riso. Diedero lor manforte Peppino, mai ne vide nel mettitutto dei nonni, e Peppinello, solo all’ospedale lo aveva assaggiato. Come quattro mezzi evangelisti, pur giunti per diversa via, rimasero nel solco del grano. Al tempo di Gesù, né Egiziani né Ebrei conoscevano il chicco d’oriente, affatto menzionato nelle Scritture. Ecco, dunque, la verità conosciuta: senza storia sono le frittelle di riso e senza tempo quelle di pancotto. “Acqua e farina, / finita è la brina. / Ch’è callo s’arsente / da l’olio bollente”.
La ricetta: