Gli storici sono piuttosto d’accordo nel sottolineare il ruolo chiave della cittadinanza nel mondo antico. Essere romani, nell’enorme impero, significava essere cittadini di Roma, con i privilegi conseguenti, e lo era anzitutto in senso letterale: qualunque provinciale che arrivasse a Roma, dopo l’editto di Caracalla, poteva ritenersi a casa propria. Il tempo passa, l’impero si disgrega, ma soprattutto in Italia dove i centri abitati sono più numerosi, ricchi e popolati, la cittadinanza conserva un valore peculiare. Nell’Europa medievale le città si conquistano man mano ampi spazi di libertà, ma il territorio circostante. il “comitatus”, resta più o meno soggetto all’aristocrazia feudale; nell’Italia centro-settentrionale le città sottomettono invece il “comitatus” alla propria autorità. Si consolida così una speciale relazione, con una forza di resistenza formidabile che saprà fieramente tenere testa alle transizioni politiche a venire.
In questo l’Umbria propone solide conferme. Perugia, Gubbio, Spoleto, Foligno, Città di Castello hanno esercitato a lungo su territori straordinariamente vasti una egemonia decisa, che tutt’oggi struttura un tratto identitario condiviso e indiscusso. E Assisi? Se ci si arrestasse all’inizio del secolo scorso, o forsanche alla metà di esso, probabilmente Assisi non meriterebbe una posizione distinta. L’attualità però, e i molti decenni che la precedono, ci restituiscono invece (si è avuto già modo di accennarlo su queste stesse pagine) una città che ha abdicato alla sua missione aggregante.
La gravità dell’affermazione merita qualche sfumatura. Per cominciare, esistono zone rispetto alle quali essa si attenua fino a scemare: è così per tutto il Subasio e anche per la porzione di territorio che dalla montagna scende verso la valle umbra (si pensa qui a Viole e, meno decisamente, anche a Rivotorto e Capodacqua). E non può nascondersi che anche in frazioni amministrative dove i ragazzini si orientano meglio nella destinazione dell’ultima gita scolastica che nel capoluogo del loro Comune, ciononostante esiste un sentimento generico e lasco quanto si vuole, ma presente, di assisanità. Un sentimento che però, più che di appartenenza, sarebbe forse giusto (benché avvilente) definire di pertinenza. Una identità passivamente subita, insomma, piuttosto che attivamente vissuta e rivendicata. Paradossalmente Assisi viene percepita come un luogo distante anche fisicamente, nonostante la prossimità, e peggio ancora come un luogo “altrui”, senza neppure ben sapere bene di chi.
Avventurarsi nelle ragioni (certo numerose e concorrenti) di questa straordinaria situazione, che non ha eguali nella regione e di cui si fatica a trovare equivalenti altrove, è impresa che travalica largamente questa sede, ma degli spunti di riflessione agganciati alla storia recente restano legittimi. Una volta sgombrato il campo da troppo facili risposte grazie agli esempi positivi delle città circonvicine, affiorano interrogativi più stimolanti: che anche qui il 1926, data di svolta – si veda il recente, fondamentale libro di Ezio Genovesi – della storia recente di Assisi, giochi un suo ruolo? Che il piano Astengo, provvidenziale per l’estetica della città, l’abbia insieme condannata all’isolamento? E la pressione turistica, il decentramento scolastico, il terremoto del 1997? E gli assisani dentro le mura, quelli che un viaggiatore del ‘500 definiva “popolo dispiacevole, poco cortese a forastieri né meno a sé stessi”?
Sembra difficile contestare che, da questa situazione, la comunità assisana non può attendersi nulla di buono, tanto più nella critica contingenza attuale dove la coesione del territorio diviene un valore competitivo decisivo. La vera domanda è allora: è stato oltrepassato il punto di non ritorno, o Assisi può ancora rifondare un sentimento di cittadinanza condiviso e accogliente?