Esiste una cosa impalpabile, astratta, mobile, persino inafferrabile nella sua totalità, eppure indispensabile: è l’anima di un luogo. Non è la semplice somma delle sue caratteristiche, di pregi e difetti: è una misteriosa sintesi di realtà, percezione e immaginazione, un inestricabile groviglio di passato, presente e futuro. Mai unanimemente accettata dalla comunità che a quel luogo sente di appartenere, si può però sempre individuarne un nucleo condiviso intorno al quale ciascuno si riserva il diritto di argomentare, variare, discutere, persino battersi.
E se ciò può avvenire talora con durezza, e magari con esiti infausti, sono piuttosto l’assenza o la stagnazione di questa dialettica da temere come un male sottile e segreto, sintomo dello stallo di un corpo sociale.
E nel caso di Assisi, cosa è accaduto? Ma, soprattutto, cosa sta accadendo? Troppo e, assieme, troppo poco.
La più cospicua parte del “troppo” arriva dalla crescente porzione di umanità che situa in questo luogo un decisivo crocevia della spiritualità umana, ancor prima che della storia dell’arte occidentale. Questa pressione esterna è cosa antica, ma per secoli ha assunto forme e intensità tutto sommato (benché faticosamente) sostenibili dalla comunità locale.
Senonché, almeno a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, questo è diventato sempre meno vero: la perla dell’arte medievale, la città della pace, il faro del dialogo interreligioso, sono solo alcune delle etichette che hanno colonizzato l’immaginario collettivo sbriciolando, per l’insidioso tramite dello sfruttamento economico indotto, complice lo spopolamento cronico del capoluogo, la base socioeconomica dell’assisanità, per così dire, autarchica. Questa spinta formidabile non ha incontrato resistenza nella straripante (anche elettoralmente) maggioranza della popolazione del territorio comunale, al contrario. D’altro canto Assisi è uno dei rari casi in Umbria in cui il capoluogo ha fallito la sua naturale missione aggregativa verso il proprio territorio. Non è un mistero quanto poco le frazioni di Assisi, con scarse e disabitate eccezioni, sentano in comune con Assisi ed i suoi ormai rari abitanti, i quali peraltro volentieri ricambiano.
Si aggiunga a ciò la rivalità tra frazioni e si avrà il territorio meno coeso dell’intera regione.E poi, perché mai questa maggioranza di cittadini avrebbe dovuto battersi per affermare, costruire, difendere l’autarchia identitaria di un luogo che gli è sostanzialmente estraneo, altezzosamente occupato da una minoranza declinante e scontrosa? Fin troppo facile, persino ovvio e perdipiù turisticamente lucrativo andare a rimorchio dei modelli preconfezionati, di sicuro richiamo nazionalpopolare.
Il “poco” che accade attorno all’identità autoctona ristagna così fra quegli scarsi e sempre più recessivi cittadini, vasi di coccio tra vasi di ferro, che si improvvisano custodi di un genius loci indefinito e forse indefinibile, certo passatista e forse perciò fastidiosamente irriducibile agli stereotipi dominanti.
Inevitabilmente, orgogliosamente e un po’ tristemente abbarbicata a baluardi perfettamente assisani (il Calendimaggio in prima linea), questa porzione di comunità si rivela in grado di soprassalti anche generosi, ma incapace di dare consistenza alla massa critica necessaria a una reazione.Chi condivide, per quanto rapida e semplificatoria, questa analisi, converrà anche sulla necessità urgente di un intervento di riequilibrio. Il rischio incombente, benché perfettamente incorporeo, non è perciò meno grave. È infatti in questo spazio immateriale che, prima che altrove, si determinano il presente e soprattutto il futuro di un luogo. Assisi non può sopportare, per quanto attraente o lucrativo ciò possa essere o apparire, che la propria identità sia quasi interamente eteroprodotta, che la sua anima evapori via sovrastando i suoi cittadini dall’alto del suo statuto intangibile di icona dell’immaginario collettivo nazionale e internazionale.
Quale dunque un riequilibrio possibile? Difficile rispondere, ma è d’obbligo rilevare come Assisi, così ricca di luoghi della memoria soprattutto religiosa, non possieda a tutt’oggi un luogo della memoria civile esclusivamente dedicato alla storia e all’identità della città. Un museo, un archivio di documenti, oggetti e immagini?
Certo e anche, ma non solo: prima ancora di tutto ciò, un luogo privilegiato e attivo dell’indagine sulla città, pronto a commissionare ricerche, a organizzare dati, a ricostruire percorsi storici, biografici, artistici, sociali, in una costante attitudine critica e dialettica tale da scongiurare l’agiografia celebrativa sempre in agguato. Grandi e piccole città, in Italia e ovunque in Europa, si sono mosse efficacemente in questa direzione, creando strutture che hanno da subito proficuamente messo a sistema l’immenso materiale già disponibile benché disperso in luoghi pubblici e privati, avviando poi su questa base ambiziosi progetti di ricostruzione dell’identità storica, ricognizione dell’identità presente e proiezione dell’identità futura.
Non sempre né ovunque questo è utile e necessario: lo è però certamente e urgentemente nel caso di Assisi, che per quanto possa non piacere a tutti è stata, è e sperabilmente continuerà ad essere qualcosa di più di un levigato contenitore d’arte e spiritualità.