E disegna l’Appennino nel cielo
l’ombra di una esistenza più antica
dal cuore più inespresso e più intero:
nell’Abruzzo o l’Umbria, è la vita
della razza che fu; che resta; e ha
nuove generazioni, e più non pare
la nostra, e, sopravvissuta, vivrà
dopo di noi, tra pascoli e fiumare,
in questa sua rurale felicità.
(P. P. Pasolini, Il canto popolare)
Assisi è il centro dell’Appennino (l’Oriente dantesco della nascita è anche Centro, come il pilastro che chiude in sé la tomba di Francesco). Pasolini ci arriva con il bagaglio leggero e pesante dell’umanista dalla formazione classica e il pensiero post-contemporaneo; con la gioia di chi legge attraverso gli occhi di Dante e di Giotto uno spazio dipinto nella ritualità precedente alla merce. Il mito è narrazione, non specchio. E quando Pasolini arriva ad Assisi, l’Appenino, per lui, è ancora mito. Ma la felicità del mito (innanzitutto cristiano), che ancora resiste alla sottoritualità borghese, non nasconde il sorriso ironico di chi è caduto da cavallo senza essere illuminato da nessuna divinità, e vive delle sue ferite come chi è marchiato e vuol dimenticare il marchio e non riesce a farlo. Pasolini non è come Penna, l’amico e maestro che dall’Umbria se n’è scappato a Roma per amore, inseguendo il suo ragazzo. Lui a Roma c’è scappato per lasciare alle spalle il suo amore, il suo ragazzo. Pasolini non può pensare all’omosessualità con leggerezza (o non pensarci affatto, come forse è per Penna). I suoi amori sono colpe. Sono ferite.
La vita di chi si porta dietro una ferita, in fondo, è ripetitiva – non è che la continua replica d’incontri con chi quella ferita te la riapre, e con chi te la rispetta, e magari te la bacia pure, senza averne paura o repulsione. Nella metamorfosi degli incontri ognuno si costruisce la propria esistenza, e il giudizio del proprio danno. E quando Pasolini arriva ad Assisi, si è costruito già questo giudizio. Ne scriverà a chi lo aveva invitato, don Giovanni Rossi, dopo esserne diventato amico. La Pro Civitate Christiana (la Cittadella) è un curioso rifugio per un artista che pretende lo scandalo (perché pretende la verità, cioè l’indicibile), ma non vuole essere scandalo (scandalizzare è una forma di narcisismo funzionale alla mercificazione dei rapporti sociali e umani). Ma è un rifugio sicuro. Dal settembre del 1962, quando don Giovanni gli chiede di partecipare a un convegno (“Il cinema come forza spirituale del momento presente”), e lui rifiuta, per poi arrivare da viaggiatore e non da convegnista (“Non posso sopportare i farisei che usano la religione per i propri interessi. Se verrò da voi, ci verrò a convegno finito”), la Cittadella diventa il luogo nel quale la ferita che non può guarire viene guardata con rispetto. Nel quale tentare la serenità con il primo e l’ultimo amore – la madre e Ninetto. La paura (censura) del sesso come linguaggio (aperto e sotteso, comunicativo ed espressivo) è tratto inequivocabile della totalizzante medietà che segna l’agonia del tempo/teatro borghese. Pasolini per questo fa del sesso un linguaggio da urlare – contro una paura che è anche la sua. E a don Rossi lo scrive, ringraziandolo, perché con lui la verità non la deve urlare, ma la può disegnare, come l’ombra dell’Appennino.