Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?
(Decameron, scena finale)
Assisi è Giotto. Come Padova, ma forse di più. Perché Giotto è Francesco – la sua lode all’acqua, alla terra, all’asino, agli uccelli, agli alberi esili come colonne, in un ritratto prospettico che dice il passaggio dallo sguardo rovesciato dell’icona a quello del fedele che, osservando, impara; dalla presenza del divino al racconto del divino. Pasolini ama profondamente Giotto. Anche lui è pittore, ha studiato con Roberto Longhi a Bologna e il suo cinema è pittura. Nella sceneggiatura di Uccellacci e uccellini, nella sezione dedicata a Francesco, nella scena in cui Frate Ninetto sogna di trovarsi in Paradiso a colloquio con il Padre Eterno, Pasolini scrive: “Il paradiso di Ninetto è dipinto da Giotto”. E la scena è un rimando a particolari del ciclo assisano della Vita di Francesco.
In Poema per un verso di Shakespeare (Poesia in forma di rosa) – “Ciò che hai saputo hai saputo, il resto non lo saprai” – Pasolini racconta un lungo viaggio attraverso il boom economico, la fine del neorealismo, l’avvento della Nuova Preistoria, le borgate dei ragazzi amati, l’Africa (ultimo luogo mitico che resiste al neocapitalismo), l’“autostrada tra Bologna e Milano” e Assisi. Ad Assisi, di fronte a Giotto, il viaggio diventa urlo (quello stesso della scena finale di Teorema). L’urlo della crisi personale e storica di fronte alla morte dell’uomo fatto merce. Giotto è dentro quella morte, perché è al fondamento della cultura della società borghese responsabile della fine della Storia (com’è detto in Porcile).
Poi, poiché in Italia tutto è a mezzo,
eccoci qui che lottiamo a mezz’aria,
nella vallata del Chiascio e del Tescio.
All’altezza della Chiesa Superiore,
con un vento famigliare e nemico
che scende giù dalla pianura padana…
Stracciato lino sui resti eterni dell’estate,
o ruggine fecondità sotto le irremovibili
nevi del trecento, laggiù la pace ha giganteschi pettini
di solchi, per il rado pelame dell’Appennino.
“Ho dimenticato la ragione – il patto
con Dio – grido nell’aria invernale,
lottando come un vecchio cavallo portato al macello –
E amo la morte dei morti, quella che laggiù
nello sconsolato Appennino,
testimonia il sopravvissuto cippo divisorio di proprietà!
barocco! ottagonale! con le scritte su pergamena
di marmo arrotolato come orecchie a sventola!
L’uomo non potrà mai adattarsi alla Società.”
Da Foligno o Perugia giunge per la sonorità della neve,
un suono di campane, con lai di motorette
in accorate officine,
aperte su valli, su strade in curve deserte,
o strade secondarie di terra, che vanno
verso paesetti agghiacciati, nel colorino marrone,
delle caserme, delle centrali elettriche…
Grido nell’aria di chiesa:
“Amo anche la morte di Giotto,
che non mi piace più, laggiù, in quella triste navata,
piccola come una navicella pirata,
pittore con la testa corta come l’Umbria!
Potrei anche dare una mano di calce
su quei memorabili affreschi pieni di devoti
che fanno i devoti, col santo marroncino, slavato
che contro colate di blu di prussia,
fa il santo: Dissociazione senza più Allusione,
CHE LA MORTE DEI VIVI VUOLE LA MORTE DEI MORTI.”[1]
Ma nel Decameron Giotto torna ad essere amato. La Trilogia della vita è l’ultima narrazione della speranza (che verrà abiurata poco dopo l’uscita del Fiore delle mille e una notte dal Pasolini che pensa a Salò). Il racconto del viaggio di Giotto verso Napoli e della realizzazione dei suoi affreschi a S. Chiara prende addirittura la funzione di cornice (secondo un procedimento diverso da quello di Boccaccio, e legato alle letture di teoria del romanzo – il cinema, in Pasolini, non è didascalia ma esegesi). E Giotto è proprio lui, Pasolini (così come sarà ancora lui il Chaucer-cornice dei Racconti di Canterbury). Avrebbe dovuto essere Sandro Penna (il più grande poeta italiano contemporaneo, per Pasolini), ma Penna rifiutò all’ultimo momento, e la scelta di interpretare Giotto fu una specie di rimedio all’irrimediabile. Ma Pasolini cambiò nella sceneggiatura il ruolo del personaggio – non più Giotto, bensì il suo migliore allievo (una specie di dichiarazione d’amore a Penna da parte di un suo discepolo per umanità, se non per stile). Ma è Giotto a rimanere presente, con il ricordo dei cicli di Assisi e Padova. Colori e forme giottesche sono elemento di unità in tutto il film. Fino all’epilogo, dedicato interamente al discepolo del pittore (che è Giotto ed è Pasolini) che sogna la realizzazione della sua opera.
Nella Dopostoria noi siamo postmerci destinate all’autoconsumo. Frustrate se invendute. Ma possiamo essere ancora postmerci inadatte alla vendita. Quando conosciamo la grazia di essere inutilizzabili. Di finire nell’immondizia, tra la bellezza (Cosa sono le nuvole). Di sognare un’opera, invece di realizzarla. Il sogno di un sogno di un sogno, contro la realtà della merce che ha trasformato i sogni in desiderio di consumo, dissociandoci senza Allusione.
[1] Ivi, vol. I, pp. 1172-1173.