I luoghi hanno un’identità, come quella umana. Molteplice (come quella umana) – una propria, una attribuita dall’altro, una definita da tempo e spazio, una potenziale. Un luogo può essere percepito come dolore o gioia, claustrofobia o libertà, a seconda di come lo si osservi, e da dove. La percezione condiziona la relazione. Dai luoghi simbolicamente legati al dolore ci si allontana, per paura di esserne contaminati. E la sofferenza è più facile da individuare rispetto alla gioia, nella logica della semplificazione che guida la pacificante inerzia della meccanicità del vivere. Così sono nate le strutture chiuse del controllo e della censura (perché confrontarsi con l’umana inevitabilità del dolore, della morte, della violenza, quando si può fingere che non esista, reclusa in uno spazio chiuso agli occhi dei più?). Così sono nati i lager, luoghi di morte circondati dalla raccapricciante ovvietà della vita. Difficilmente immaginiamo che il nostro punto di vista (che può coincidere anche con gli occhi volutamente chiusi) sia un atto di responsabilità. Eppure è così. Non accettare la complessità è un delitto. Anche di fronte a un luogo. Ad Assisi, sotto l’imponenza della Basilica di San Francesco e la rude bellezza di San Pietro, c’è un edificio in pietra rosa, di fine Ottocento, elegante, fintamente antico, circondato dal verde. Ha l’aspetto di una madre un po’ severa ma bravissima ad accudire. Si chiama Istituto Serafico. Il suo fondatore, Ludovico da Casoria, non aveva bisogno di aggiungere il nome di Francesco alla definizione dantesca. Il Serafico è il santo dell’ardore, amore che è sguardo, azione, cura, libertà, accoglienza dello scarto prodotto dalla semplificazione. I santi non sono santi se non fanno miracoli. E non c’è santo più santo di Francesco, che ha compiuto il miracolo di essere totalmente umano. Chi entra nel Serafico sa di non poter chiudere gli occhi, sa che deve costringersi ad essere almeno minimamente umano. Ad avere il coraggio di vedere la gioia dove s’immagina solo dolore. Ad accettare di spaccarsi in due cervello e cuore per farci entrare gli occhi di chi non guarda come noi, la mancata parola che dice, la gioia delle mani che sostituiscono un corpo nella libertà del movimento. Non c’è retorica nell’incontro con chi possiede una diversa percezione del mondo, quando si diventa consapevoli che non esiste un solo modo di comunicare e sentire. E allora ti ci puoi arrabbiare, ci puoi ridere a crepapelle, e anche soffrire, con chi è speciale. Imparando che percepire diversamente, significa essere senza mediazioni – rabbia pura, pianto puro, gioia pura, amore puro, attenzione pura, distrazione pura. I ragazzi e le ragazze del Serafico non hanno sovrastrutture che coprono l’essenzialità. Sono l’immagine del totalmente umano, che è dei santi perché è incomprensibile ai più. Il Serafico è ad Assisi, ma non è Assisi. Tutti lo guardano come a un luogo di sofferenza, anche se non lo si dice. Consapevolmente o meno, lo si evita, circondandolo della zona grigia che prescinde il giudizio, ed è perciò il peggiore dei giudizi. Fino a non vederlo più. Ci lavorano assisani, è formalmente riconosciuto, ma non è Assisi. Eppure, nel Serafico ci sono scuole speciali pubbliche, che potrebbero interagire normalmente con le altre scuole, e ci vivono e studiano ragazzi, ragazze e adulti che potrebbero integrarsi perfettamente nella socialità cittadina (perché non affiancare al Serafico una cooperativa che segua ragazzi e ragazze esternamente, inserendoli nelle attività sociali e lavorative di Assisi?). Certo, il tutto con la cura e l’attenzione dovuta a chi è complesso. Inventandosi modalità impegnative, ma che limerebbero quel grigio, fino a farlo scomparire del tutto. Osservare da dentro per appropriarsi della giusta prospettiva che faccia di un luogo percepito come dolore lo spazio di ogni emozione e conoscenza. È successo in passato, potrebbe succedere ancora. Lo scambio con la diversità è una ricchezza concretissima. “Beato chi è diverso, essendo egli diverso, ma guai a chi è diverso essendo egli comune”, scriveva Sandro Penna.