27 Marzo 2021

La maestra M.

Francesca Tuscano
La maestra M.

Ad Assisi il libero pensiero non aveva vita facile. Diciamocelo chiaramente, era una cittadina piccoloborghese. Come si sarebbe detto in tempi sospetti, democristiana (sospendo il giudizio sul presente, perché non ci appartiene). Eppure, esisteva il rifugio perfetto per i più piccoli tra coloro che amavano il libero pensiero – l’asilo della maestra M. Lì si applicava il metodo Montessori, e perciò ci arrivavano i figli di chi credeva più alla pedagogia laica dell’educazione cosmica che a quella cattolica dell’educazione ultraterrena. Da una porta scura di un palazzo del centro si entrava in uno spazio di colori (il verde acqua delle pareti) e suoni rassicuranti (persino per me, che avevo passato settimane a piangere, prima di abituarmi all’idea che entrare a scuola non significasse rimanere orfana). La maestra M. ci suonava il pianoforte e ci faceva cantare. Ci faceva disegnare, colorare, creare oggetti con le pietre, la carta e qualsiasi materiale potessimo maneggiare. Ci faceva ballare, recitare. Ci faceva il ritratto. Ci faceva sentire importanti. Ci insegnava a riconoscere i talenti che possedevamo. Lentamente, tutti si avvicinavano a tutti. E la maestra M. sorrideva, mentre ci guardava, seduti, a fare merenda insieme, accuditi dalla bidella E. (altissima e imponente – la maternità più concreta che io abbia conosciuto, dopo quella di mia madre). Quelle due donne, apparentemente così diverse tra loro, per aspetto e ruolo, erano una cosa sola. Non era neanche necessario che si parlassero. Ognuna sapeva cosa fare e quando. Non eravamo mai soli, pur giocando e lavorando in autonomia. Se era necessario l’abbraccio, l’abbraccio ci sarebbe stato. Se era necessaria la parola, per incoraggiare, per mettere ordine e per gratificarci, la parola ci sarebbe stata. Se era necessario l’ascolto, ci sarebbe stato chi si sedeva accanto a noi. E niente cadeva dall’alto. La maestra M. e la bidella E. erano solo casualmente più alte di noi. Per il resto, si parlava la stessa lingua, si possedeva lo stesso codice. La libertà di essere quello che eravamo ci permetteva di superare le paure e di crescere in armonia con limiti e capacità. Nessuna minaccia di punizioni divine nell’asilo laico del pensiero libero. Solo educazione al rispetto, e a quella che, a breve, in altre istituzioni, si sarebbe chiamata autogestione. Parlare ed essere ascoltati senza essere giudicati. Con la maestra M. non era importante lo specchio, ma quello che c’era aldilà dello specchio (come insegnano Alice e la sua meraviglia, e Zazie, che cerca il Metrò). Non usando il contratto del linguaggio, le sue leggi economiche, le sue dinamiche di potere, la maestra M. e la bidella E. avevano stabilito con noi l’unico contatto necessario, quello reso sensato dal suo stesso essere. Ci si voleva bene senza sentirsi in debito (anche la gentilezza può essere sopraffazione, se non si possiede un codice comune). E ora, che so che la solitudine ci rende morali, comprendo quanto io debba alla maestra M. e alla bidella E., che mi hanno insegnato a non starmene da sola, a preferire la compagnia dell’altro a quella dei miei fantasmi. Perché è solo nella scelta che si diventa morali. E anche la solitudine deve essere scelta e non autopunizione. Un teologo russo, Florenskij, scrisse che l’icona è una finestra. La finestra non è luce, ma senza finestra noi non avremmo accesso alla luce, e perciò la finestra, per noi, è nel contempo luce e tramite materiale di luce. Ecco, la maestra M. e la bidella E. sono state le mie finestre, nell’Assisi del libero pensiero.

Francesca Tuscano

Francesca Tuscano laureata in Russo, Italianistica e Lingua e Cultura Italiana. Ha scritto di letteratura, teatro, cinema e musica russi. Lavora come catalogatrice di fondi musicali, traduttrice dal russo, librettista.

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