Conoscevo Don Cesare Provenzi solo superficialmente. Di rado ci eravamo scambiati opinioni. Mi stava simpatico per quel suo modo schietto di relazionarsi.
L’ho conosciuto molto meglio, invece, attraverso i messaggi di saluto sui social, sui manifesti funebri e grazie alle sincere frasi di cordoglio espresse da tante persone, credenti e non credenti, fedeli e laici, di destra e di sinistra, poveri e ricchi.
Don Cesare è stato un prete, un sacerdote e soprattutto un parroco. Cioè colui che si dedica agli altri. Lo faceva con passione, come hanno scritto e detto in molti e, soprattutto, con grande naturalezza e con talento.
Inutile ripeta quanto sia stata incisiva la sua opera sociale. Un personaggio simile, dedito principalmente ai giovani, a mia memoria fu Don Pietro Martinenghi, a metà degli anni Settanta.
Don Cesare ha testimoniato nella sua avventura terrena quale sia il ruolo del prete: “essere pastore con l’odore delle pecore”, per citare Papa Francesco. Cioè essere pastore che si confonde e abbraccia la gente, fino ad assumerne l’odore.
Don Cesare non era un mistico, non era austero, amministrava i beni della Parrocchia con concretezza e senza disdegnare il valore delle cose materiali, ma aveva il gusto di stare insieme e vivere generosamente il contesto sociale in cui si trovava a operare.
Il suo è esempio raro nella Comunità ecclesiale. Ad Assisi il distacco fra clero e popolo è talvolta enorme, i conventi e i monasteri – che occupano una parte enorme del patrimonio immobiliare della Città – sono spesso attività commerciali e la cura dell’immagine soverchia spesso quella delle anime.
Papa Francesco ripete sempre che le porte delle chiese devono essere aperte e ospitare tutti. Don Cesare lo ha fatto, ora si spera che al suo posto arrivi qualcuno che ne sappia seguire l’esempio e che anche i suoi colleghi e colleghe si spalanchino ai bisognosi, che non sono solo i poveri ma le tante persone che, a tutte le età, hanno necessità di un confidente, di un amico, di un sostegno, di un Parroco.