Il Calendimaggio, per la nostra generazione è stato un iniettore di adrenalina a getto continuo, un’esperienza totalizzante ai limiti del fanatismo che ci spingeva, anche nei mesi più freddi, imbacuccati, a girare per i vicoli elucubrando progetti di scene ogni sera nuovi, immaginando possibilità non ancora esplorate, accalorandoci perfino per i dettagli.
Di tanta energia era certo complice la giovinezza, una buona dose di ingenuità e l’idealità dei vent’anni ma anche un differente modo di sentire e godere la festa che condividevamo con il resto della comunità e che ci faceva sentire dei privilegiati.
Anche ora i partecipanti sono moltissimi, ma spesso si tratta di avventori dell’ultimo mese che svangano qualche serata in una Assisi priva di stimoli. Molti giovani preferiscono spendere altrove il loro tempo, altri sono studenti fuori sede che non sempre hanno la smania di tornare per la festa, le persone di età, divenute una rarità, sono rintanate nelle sartorie o in taverna. Il senso di appartenenza chi ce l’ha se lo tiene ma spesso non si esprime attraverso una partecipazione di fatto.
Cosa è successo? C’è qualcosa che è andato storto?
Non esiste una risposta univoca né definitiva. Una possibile interpretazione suggerisce che il Calendimaggio non ha fatto quel salto di qualità su cui, venti o anche trent’anni fa, in molti avrebbero scommesso.
Fiumi di parole sono scorsi per decidere se valesse la pena tanto dispendio di energie per una festa per pochi che non apporta riscontri economici significativi alla città.
La diatriba potrebbe non centrare il problema. Quello che sembrerebbe mancare, è il contesto in cui le manifestazioni si svolgono e solide basi ideologiche sulle quali la festa possa poggiarsi per riacquisire il suo carattere distintivo e il suo lustro. Sembra regnare la confusione e l’incoerenza: il Calendimaggio ha perso la sua connotazione originaria ma non ne ha assunta una nuova. Pare invece brancolare in una identità liquida che spazia tra l’essere una festa con connotazione storica, un fantasy, un carnevale, senza che questi paragoni appaiano offensivi: il carnevale, ad esempio, è una festa antichissima, con persistenze rituali e suggestioni di rara bellezza ma con le sue peculiarità. Quali sono le nostre? Il medioevo di riferimento parte dagli unni, passa per Brancaleone e si spancia fino al tardo Rinascimento, spesso inventato; la musica (anche negli spettacoli) esonda fino al barocco, le fogge dei costumi tagliano i secoli come fossero burro, i riferimenti alle categorie dell’età di mezzo sono trasandate o ignorate.
La domanda da porsi è: il Calendimaggio, oggi, cosa è? E soprattutto, domani, cosa vuol diventare? Quale ruolo dovrebbe ricoprire un Ente che al momento non sembra azzeccarne una?
Un segno eloquente di disorientamento ha inaugurato quella che doveva essere una stagione di cambiamenti, nel 2016, con un nuovo statuto, elaborato quasi di soppiatto da poche persone e poi votato dai Consigli di parte, che si è rivelato manchevole di una solida visione prospettica e che ha portato la festa da tre a quattro giorni senza però sapere che fare di questo tempo aggiuntivo. Sarebbe stato non solo giusto ma addirittura bello riunire la cittadinanza e le istituzioni per decidere di uno strappo così vistoso della tradizione, e magari, alla fine, dopo un confronto e semmai qualche scontro, qualche cosa di più organico ne sarebbe uscito. Ed invece, non bastasse, l’anno successivo, ci ha colti alla sprovvista anche il Calendimaggio Open, che già nel nome smarrisce il senso stesso di una identità a lungo custodita. Nel primo anno della nuova manifestazione ha avuto luogo un contest tra saltimbanchi, giullari, artisti di strada sparsi a casaccio per le strade, come a Brisighella, a Bevagna, al Palio di Isola Dovarese, a Mondaino e chi più ne ha più ne metta ma neppure gli anni successivi hanno visto spunti migliori.
Foligno nel 1981 si è fregiata del festival di Segni Barocchi, Bevagna ospita da tempo esperti medievisti e giornate di lavoro del CISAM (Centro italiano di studi sull’alto medioevo), ad Assisi abbiamo l’Open: c’è di che riflettere.
Di questa deriva di senso una grossa fetta di responsabilità ricade sulle molte amministrazioni che nulla o troppo poco hanno fatto per saldare la festa all’identità della città: nessuna occasione di crescita, niente sedi adeguate, nessun investimento, nessun luogo da adibire stabilmente a taverna, miserandi aiuti economici, richieste di apparizioni umilianti nei contesti più inopportuni, ma soprattutto un disinteresse palese e, spiace dirlo, ottuso.
Da dove ricominciare? Forse da una presa in carico da parte delle istituzioni, dalla costituzione di un comitato scientifico (vero) che proponga soluzioni e griglie di riferimento storiche e antropologiche, da incontri periodici con i partaioli e con tutti gli assisani cui, comunque, la festa appartiene di diritto.
Un rilancio della festa è possibile, non per renderla maggiormente appetibile ai turisti, questo semmai sarà una conseguenza, ma per ridarle verità, naturalezza, partecipazione ma anche pregio. Oppure con l’allegria dei naufragi potremo continuare ad andare alla deriva, avvolti negli stendardi, cantando a squarciagola canzoni da stadio.