6 Aprile
La stampa italiana inaugura una campagna di terrorismo psicologico d’import. Su Repubblica, una collezione di titoli fuorvianti, deduzioni non fondate e libere interpretazioni delle comunicazioni istituzionali svedesi. Lo scopo? Parrebbe invidia: e la capisco. Ma invece è clickbait: e mi da urto. Però funziona: e puntualmente quelli di casa entrano nel panico. Stamattina hanno chiamato per dirci di rientrare. Io, l’impulso, “ma c’ho 30 anni ammò, ma lo saprò che devo fa, no? Te pare che devo pagà mille euro e fa 50 ore de viaggio per favve sta tranquilli?”. Davide, la diplomazia, “ora ci informiamo e se ci sono gli estremi prenderemo provvedimenti.”
Prima di pranzo ho pure ricevuto un messaggio d’affetto da Gabriele: “sbrigati a tornare. Sennò il titolo della prossima puntata del diario sarà un Assisano in terapia intensiva”. Ah, gli amici d’infanzia!
Ancora nessuna mascherina per strada. Tutto aperto. Info-grafiche e cartelli ovunque: lava le mani spesso e per 30 secondi, starnutisci nell’avambraccio, tieni due metri di distanza, non uscire se stai male. Poche e semplici regole. Tutto nella semi-norma. I contagi su Stoccolma sembrano stabilizzati sulla fase di plateau.
Ma la precaria tranquillità-bolla di apatia forzata in cui mi sono rifugiato, è stata turbata: così ho scritto all’ambasciata. È già da qualche settimana che non controllo i voli. Ho silenziato l’ulteriore stress del pensare di dover tornare. Ma poi, tornare dove? E quando? Boh.
Mi hanno risposto dopo pochi minuti. Ci hanno messo in lista nel caso in cui fossero organizzati voli di rimpatrio. Oh, sarò un po’ emotivamente provato ma ho avuto voglia di ringraziare così: “è un rassicurante privilegio sapere che il Paese non ti lascia solo nella difficoltà”. C’è un piccolo patriota in me; non lo sapevo; che schifo.
8 Aprile
Venti metri quadrati di monolocale. Scenografia claustrofobica di un fluire accelerato: la colazione e poi subito ora di cena. L’indeterminatezza padrona del tempo. Sono le settimane a scandirlo: giornate troppo scarne per essere percepite unitariamente. Ho una parvenza di controllo ogni blocco di sette. “N’è passata un’altra?”, ho pensato domenica.
Oggi ho letto che gli svedesi le numerano le settimane: così pianificano e si organizzano meglio. Mi è parso interessante.
Se cognitivamente non lo afferro, questo mio tempo di cui sono avido custode, qualcosa che non padroneggio ma che posso provare a chiamare bioritmo mi aiuta a capire che oggi è mercoledì.
Mercoledì di solito vesto nichilista. “Ma che scrivo a fà?”. Mi accorgo che penso sempre in dialetto.
C’è nonna Franca in vivavoce “a sta sempre dentro casa c’ho la capoccia che me svaneggia. Da nonno tuo non je fa specie che tanto non scappava mai”.
10 Aprile
Sedici gradi. Le terrazze dei bar sulla promenade Norr Mälastrand a Kunghsolmen sono stracolme. Sui tavoli cappuccini e kanelbulle. Qualche birra. Per terra bustine di snus. Non avevo ancora visto tanta gente: oggi il mio primo mese in Svezia. Ma distanziamento e disciplina? Controllo le statistiche della giornata: stabile. Allora cala lo scetticismo, il modello sembra funzionare. Come il panico anche la fiducia è contagiosa: adesso credo anche io all’epidemiologo di stato Tegnell.
Leggo che parte del personale di hotel e della compagnia aerea di bandiera, SAS, sarà formato per prestare servizio negli ospedali ed assistere gli anziani isolati. La trovo un’ottima idea.
Ho viaggiato per la prima volta in metro. Poi in traghetto da Östermalm fino a Nacka. Nel mentre ho chiamato Ari: mi ha raccontato che lascia la finestra aperta tutto il giorno per ascoltare Corso Garibaldi: i rari passi ed il vociare le fanno compagnia.
11 aprile
Mi confermo procrastinatore seriale e passo ore alla finestra: so dove abita la padrona del setter che assomiglia a Pulce; dove batte il sole e a che ora del giorno; c’è una vicina niente male che cucina sempre in mutande. Vedo la sagoma del suo gatto annoiato che scruta i passanti. Ogni tanto incrociamo lo sguardo: gli faccio l’occhiolino, “miao”, mi pare risponda lui.
Il tetto rosso del palazzo di fronte ormai è ben scolpito nell’ippocampo. Quando penserò a Stoccolma sarà la prima immagine che ricorderò.
Oggi mi manca Barcellona, la prossimità, il caos. Ma ho anche un pensiero positivo: non passavo così tanto tempo con mio fratello da almeno dieci anni.
Twitter: svedesi ed italiani che parlano svedese attaccano Tarquini di Repubblica: “perché scrivi fesserie?”.
Tutti contro il contributo di solidarietà. Sconforto. Non, cambierà nulla. Lo avevo sperato. “Baciate i piedi a Della Valle, che ve devo dì?”
12 Aprile
Pasqua. Pranzo in famiglia virtuale. Cena messicana con Diego e Marene. Ho pensato che sono un paio d’anni che non rompo l’uovo con la testa. Sono adulto.
Fuori è freddo, a tratti nevischia. Resto a casa su Facebook. Per caso, leggo una nota di un’urbanista italiana che vive qui. Bellissima. Ne copio e incollo una parte:
“Ho intuito una cosa sugli svedesi: il popolo più secolarizzato al mondo ha nello Stato la sua religione.
Che è un po´ come aver eletto sé stessi a divinità ma non divinità individuali, ciascuno con propria identità e carattere, come era nelle antiche mitologie pagane. Qui si tratta piuttosto di una divinità collettiva, un unico dio ma plurale. Il popolo svedese è questo dio plurale, un’intelligenza collettiva come quella delle formiche, dei grandi erbivori, dei banchi di alici o degli storni. Si muove come un corpo unico spinto da una forza, un codice, una coreografia, iscritti in ciascun componente in modo innato senza la necessità di una regia centrale o catena di comando.
E questa forza altro non è che una fede.
Per gli svedesi questa fede si spinge verso l’intero corpo istituzionale che è il loro stesso corpo, non vi è distinzione rappresentante-rappresentato ma identità. L’immagine che ciascuno ha di sé è l’intero. Questo mi pare.”
Le scrivo per ringraziarla. Dice che ha scritto un libro su Stoccolma. In settimana me lo presta.