12 Marzo
Sul rapido Manchester – Liverpool. La conferenza è finita e Jacopo mi aspetta per cenare Skaus insieme. La signora vicino a me tossisce: penso che in altre circostanze non me ne sarei neanche accorto ma l’OMS ha appena dichiarato lo stato di pandemia globale e la Lombardia è già in lockdown; per quanto possa negarlo, inizio a preoccuparmi. Domattina ho un volo per Copenaghen dove passerò il weekend con Lupe. Dice che non è sicura di venire perché non si sente bene. E’ rientrata da Milano la scorsa settimana e si è confinata ad Alicante in quarantena precauzionale. Che faccio? Vado comunque? Cerco voli per rientrare a Barcellona. Ancora ce ne sono, bene. Per l’Italia sono tutti cancellati invece. Se decidessi di tornare ad Assisi, dovrei farlo in treno. Ma adesso non ho voglia di decidere. C’è tempo.
13 Marzo
Ieri sera la diretta di Johnson dal pub in cui cenavamo. Ha veramente chiesto al suo popolo di prepararsi a perdere i propri cari? Questioni di etica economica e di morale. Maledetto Calvino. Oppure non lo dicono, ma probabilmente pensano di poter gestire la situazione meglio di noi.
Il gruppo di amici di vecchia data dietro a noi brindava con frivolezza. Le emergenze di Cina ed Italia erano universi semiotici troppo lontani dalle pinte dell’Albert Dock. E solo io e Jacopo ne avevamo accesso: una psicosfera di angoscia ed indeterminatezza fatta dei racconti di cari ed amici.
Alla fine Lupe non verrà, ha deciso. Io sono partito comunque invece e ora sono a Copenaghen. Due ore in aria mentre l’Italia chiudeva. La mia Università a Barcellona pure; mi chiedono se voglio sospendere la collaborazione. Penso finalmente che ho fatto bene a venire qui. Ogni tanto ne azzecco una. Perfetto: mentre scrivo l’altoparlante annuncia la chiusura dei confini danesi. “Il primo treno per Stoccolma, grazie”.
20 Marzo
A Stoccolma ormai da una settimana. Dopo qualche notte in ostello – contro la statistica ed il logos, sul letto sopra a me c’è sempre qualcuno che russa (Mila in questo caso; conosciuta ad una festa Barcellona – “ma pensa te!”) – ho occupato il letto del coinquilino olandese recentemente rimpatriato, in casa di Davide. Da quel momento, nonostante nessuna misura sia imposta dal governo Svedese, raramente mi sono alzato, se non per mettermi seduto. L’unica restrizione che percepisco è che non posso più farmi le insalatone self-service al supermercato. Al parco Haga i vecchietti fanno le loro belle passeggiate. Io d’istinto li prendo alla larga e trattengo il respiro quando me ne trovo uno dentro la zona di sicurezza: ma faccio parte di un’altra psicosfera.
Mi accorgo che sono tranquillo e rilassato. Noto come la percezione indotta che il pericolo sia distante, influenza la mia opinione e i miei comportamenti. Per esempio, il riflesso anti-contagio semi-irrazionale che incubavo da Manchester e che faceva si che spingessi le maniglie con l’avambraccio, sta svanendo lentamente. Gli insulti di cui coprivo Davide al telefono la settimana scorsa, in preda ad un attacco d’ira sull’alta velocità che connette le due capitali scandinave, oggi li meriterei pure io. Non riuscivo a capire come potesse non sintonizzarsi sul mio stesso stato d’ansia emergenziale. Lui era in un’altra campana di vetro, quella del “Lagom”*. E adesso ci sto entrando pure io.
26 Marzo
Le giornate passano rapide. Ho gli occhi costantemente rossi per il tempo passato davanti agli schermi. Non riesco a concentrarmi e lavorare e monitoro costantemente la situazione. Alle diciotto, tutti i giorni, sui gruppi Whatsapp commentiamo la situazione e condividiamo l’inquietudine. Delle routines e dei momenti di aggregazione digitale fondamentali! Come le chiamate con la famiglia; è festa grande quando nonno Pippi riesce a scorrere il dito per il verso giusto e rispondere alla videochiamata di gruppo.
Passo le ore a commentare con gli amici economisti eterodossi l’inadeguatezza delle teorie neoclassiche: poi Draghi posseduto da Keynes scrive sul Financial Times. Forse c’è speranza.
Sembra di essere su Marte. Vivo in uno stato di dissonanza cognitiva. Il mio stato d’animo, non è riflesso dalla circostanza. Sembra che la pandemia sia frutto della mia immaginazione. I pub sono pieni, pure i sushi ed i fast food, e c’è la carta igienica sugli scaffali del supermercato. Davide ha addirittura ricevuto una mail dalla sua palestra che riapre: l’istituto superiore di sanità Svedese vuole i suoi cittadini in forma. L’unica cosa che per ora resta chiusa è il Vasa Museum (e ti pareva, dovevo volevo andare io?).
Ad oggi gli infetti sono quasi tremila e i morti meno di cento. Inutile fare confronti se la maniera in cui si fanno tamponi e contano i decessi è differente. Certo è che il distanziamento sociale, che qui è culturale ed intrinseco, la scarsa densità e l’ottimo sistema immunitario svedese potrebbero limitare la diffusione del virus. Insomma, con un po’ di precauzioni qui si potrebbe avere una vita normale. Ma non è facile quando si viene da un’altra psicosfera.
Nel frattempo, tra una Fika* e l’altra, cerco un volo per rientrare.
*Lagom: avverbio Svedese difficilmente traducibile, che indica un concetto che sta fra il “ciò che è sufficiente” e “la giusta misura.
*Fika: una tradizione quotidiana in Svezia, che costituisce un’istituzione sociale in cui si beve un caffè, solitamente accompagnato da un dolce.