17 Febbraio 2021

Simone Weil scopre Assisi

Elvio Lunghi
Simone Weil scopre Assisi

Chissà poi se è giusto meritarsi questo luogo: ci meritiamo questo luogo? Essere nati qui? Magari tornando da Foligno per la strada statale, fermarsi per strada a una piazzola rivolta verso Assisi, non potendo dire aspetta a una vescica iperattiva – ognuno ha il suo cruccio e questo è il mio – e tra l’asfalto e il guard-rail scoprire a distanza la città che se ne sta sdraiata sulla costa del monte, morbida, voluttuosa come la mia gatta sopra il davanzale guarda passare le auto per strada godendosi il calduccio del termosifone e il riparo della tenda. Dimenticare tutto, perdersi nella sua bellezza. Basta così? È tutto? La stanchezza, la vergogna, puranche la faccia tosta che mi salva e poi non sono il primo, spariscono d’incanto. È tutto?

Per un maschietto è facile fare la faccia tosta e insieme una cosa imbarazzante, non dico vergognosa perché è naturale fare pipì quando ti scappa. E scappa da sola se non ti sbrighi a farla, tanto Christiane lo sa e ti lascia fare. Poi su ad Assisi sai chi ti vede? Quante persone guardano la tua piazzola a Rivotorto? Nessuna. Ma una tosta come Simone Weil, come ha potuto fare quella cosa vergognosa? Innaturale, inumana, inginocchiarsi a terra e pregare, in chiesa, davanti a Cristo e ai santi. Davanti a tutti: donna, ebrea, comunista, francese, letterata, filosofa, mistica, a terra in ginocchio come una donna qualunque che piange davanti al suo Cristo in croce. Mi torna in mente la fine di una lettera di don Milani a un giovane comunista: “Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, istallata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocefisso”. Alla Porziuncola Simone si è spogliata del Pipetta e ha fatto come don Milani, ha preso su di sé la croce di Cristo. Ebreo sia lui che lei, ebreo anche Cristo: chi meglio può capire?

Vent’anni fa nella premessa di un mio libro, La passione degli Umbri, dove parlavo di Cristo e dei suoi santi, di un Cristo di legno e di santi di carne, uomini e donne soprattutto, ma con in testa Francesco, rubai una frase da una lettera di Simone Weil a un religioso: “E se l’Evangelo omettesse ogni menzione della resurrezione di Cristo, la fede mi sarebbe più facile. La Croce da sola mi basta”. Feci stampare la frase isolata in una pagina tutta bianca, in compagnia di una frase ripresa da un libro di Hans Belting. Che strano, lei francese lui tedesco, un tempo divisi dalla banalità di una stupida guerra – ma dietro c’era il male, quello vero, umano – e qui riuniti da una comune passione: “La differenza fra una raffigurazione della crocifissione del XII secolo ed una del XIV secolo non si esaurisce in una storia stilistica”. Tra una crocifissione del XII secolo e una del XIV in mezzo c’è Francesco. Prima di Francesco i Crocifissi hanno tutti l’aspetto della croce in San Damiano, con il suo Cristo placido, bianco e rosa che sembra già risorto nonostante la morte, il Cristo che regna sul trono della croce secondo il racconto del Vangelo di Giovanni, tranquillo e ronfante come il mio gatto si scalda sopra il davanzale. Dopo Francesco il Cristo è morto come nei Vangeli sinottici e grida il suo disgusto a un Dio che lo ha lasciato in croce. Perde il suo sangue e con lui la vita come Francesco ha perso il suo dalle piaghe delle stimmate, stringendo i denti per seguire Cristo fino alla morte, e alla morte di croce. “Francesco sanguina” ripetono i suoi frati come angeli in coro, “e il Cristo in croce combatte insieme a noi”: “La croce da sola mi basta” scrive Simone e questo basta anche a me. Assisi dalla valle sembra una croce, il braccio verticale che parte dal campanile di Santa Maria Maggiore, passa per la torre di piazza e arriva ai bastioni della rocca; il braccio orizzontale che va da San Francesco a Santa Chiara. La mia miseria umana finisce qui, è tutta una scusa per poter contemplare questa città sul monte. Volendo potrei inginocchiarmi anch’io sopra l’asfalto.

“Nel 1937 ho trascorso ad Assisi due giornate splendide. Mentre mi trovavo da sola nella piccola cappella romanica del XII secolo all’interno di Santa Maria degli Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove san Francesco ha pregato tanto spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa più forte di me mi ha obbligata a mettermi in ginocchio”. È Simone a scrivere questa frase in una autobiografia spirituale in forma di lettera spedita a un amico religioso, finita anch’essa in un altro libro: Attesa di Dio. L’attesa di Dio comincia dai versi del Pater noster – “… advéniat Regnum Tuum / fiat volúntas Tua …” – ma per Simone comincia dal pavimento della Porziuncola, dove una forza misteriosa l’ha fatta inginocchiare la prima volta a terra, ce l’ha costretta e lei non se lo spiega. Più che una conversione una resa: attesa di Dio.

Elvio Lunghi

Parlo di storia dell’arte agli studenti stranieri di Perugia.

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