Nel 1888 Josef Strzygowski, storico dell’arte polacco naturalizzato austriaco, riconobbe una veduta di Roma nella vela di San Marco della chiesa superiore di Assisi, tra i dipinti che Giorgio Vasari aveva descritto nella vita di Cimabue, il più importante pittore toscano prima della comparsa di Giotto. “Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo e ora ha Giotto il grido si che la fama di colui è scura”, aveva scritto Dante nella sua Commedia, e disse il vero perché questi dipinti sono diventati scuri come la notte per l’ossidazione delle biacche. Una scritta presente sopra la città fa il nome dell’Ytalia, per indicare la regione del mondo evangelizzata da Marco, ma Strzygowski vi ravvisò una serie d’importanti edifici romani, dalla Porta del Popolo alle basiliche di San Pietro e di San Giovanni in Laterano, dal Pantheon a Castel Sant’Angelo, dalla Torre delle Milizie alla chiesa dell’Aracoeli. Quest’ultima presentava nel tetto alcuni scudi con l’acrostico S.P.Q.R., a significare “Senatus PopulusQue Romanus” emblema di Roma, alternati a stemmi della famiglia Savelli che spingevano Strzygowski a datare questi affreschi al tempo del pontificato di Onorio IV Savelli, tra il 1285 e il 1288.
A questa importante scoperta rispose quasi immediatamente un altro storico dell’arte austriaco, Franz Wickhoff, secondo il quale Cimabue non era l’autore di questi dipinti di Assisi, che dovevano essere anticipati agli anni ’60 del Duecento come provava il fatto che lo stemma presente nella veduta di Roma non era quello dei Savelli – bandato d’oro e vermiglio con in capo un ramoscello di rose tra due leoni controrampanti – bensì quello degli Orsini – bandato d’argento e vermiglio con in capo una rosa – che permetteva di collegarne l’esecuzione alla figura di Gian Gaetano Orsini, nominato cardinale protettore dei frati Minori nel 1262 e futuro Niccolò III.
Altro giro di giostra e nel 1907 uno storico dell’arte norvegese, Andreas Aubert, tornò al nome di Cimabue posticipando l’esecuzione di questi dipinti sotto il pontificato di Niccolò III Orsini (1277-80). Per tutto il secolo si sono succedute infinite pubblicazioni dedicate all’opera di Cimabue e ai dipinti di Assisi, che hanno visto gli stemmi Orsini diventare motivo di dissénso, soprattutto dopo che Cesare Brandi, nel 1951, aveva osservato come l’edificio che li sfoggiava non era la chiesa romana dell’Aracoeli bensì il Campidoglio sede del Comune, e pertanto gli stemmi potevano alludere sia a Niccolò III, che era stato senatore di Roma nel 1277-80, sia ad altri membri della famiglia Orsini, che avevano ricoperto la carica di senatore sotto il pontificato di Niccolo IV (1288-92). Nelle soffitte del palazzo capitolino si vedono ancora alcuni stemmi Orsini, purtroppo privi di qualsivoglia data.
Faccio presente come questa contesa – Cimabue ad Assisi chiamato da Niccolò III o da Niccolò IV? – è ancora in corso e non sembra destinata a trovare un accordo per un labirinto di opinioni dal sapore pirandelliano sulle scelte compiute dal pittore. Provai più volte a dire anch’io la mia opinione, sostenendo come certi affreschi scoperti nelle soffitte del Palazzo del Comune di Todi fornivano un termine post quem non per il percorso di Cimabue, potendo essere datati per la presenza di uno stemma frammentario collegabile a Gentile di Bertoldo Orsini, podestà a Todi nel 1286. Di conseguenza l’impresa cimabuesca di Assisi doveva per forza risalire a un’epoca anteriore e cioè ai tempi di Niccolò III, se non fosse che Luciano Bellosi, che di Cimabue è stato il maggiore studioso nello scorcio del Novecento, avendo sposato la cronologia bassa ai tempi di Niccolò IV proseguì imperterrito nella sua strada, seguito da tutti i suoi allievi: si scrive anche così di storia dell’arte.
In questa girandola di opinioni non si è tenuto conto della destinazione delle immagini, seguendo piuttosto le ragioni di un dibattito interno alla storia dello stile pittorico. Per la Pentecoste 1279 si tenne ad Assisi il capitolo generale dell’Ordine, e per l’occasione Niccolò III emanò nell’agosto 1279 la bolla Exit qui seminat in difesa degli ideali di san Francesco, contro gli eccessi degli Spirituali e l’opposizione del clero secolare. Grazie a questa bolla la Chiesa diventò la legittima proprietaria degli edifici occupati dai frati, che disponendo del loro semplice uso finirono per essere integrati nell’istituzione ecclesiastica. Con il loro visibile parlare, le immagini volute da Niccolò III ricordavano ai frati chi comandavano in casa loro e di conseguenza a comportarsi come ospiti e stranieri: fate i bravi se potete.