Nel 1907 il Palazzo dei Priori a Perugia ospitò una memoriabile esposizione di dipinti, sculture, oggetti di artigianato artistico trovati nelle chiese e nelle raccolte comunali delle cento città e castelli del cuore d’Italia che chiamiamo Umbria. Il comitato che raccolse questa selezione di “antica arte umbra” – al cui interno svolse un ruolo particolare Giustino Cristofani, figlio di Antonio, lo storico di Assisi – si spese in innumerevoli articoli per spiegare le ragioni ideali di una mostra che era in realtà una riedizione di quanto si era visto negli anni precedenti a Siena e a Macerata. In pratica, fatta l’Italia i Savoia furono costretti a fare gli italiani, ma anche a giustificare la divisione del territorio nazionale in province e regioni, soprattutto quando i confini amministrativi dell’Umbria era stati raggiunti con una operazione artificiale che sommava la sponda destra del Tevere un tempo occupata dagli Etruschi e la sponda sinistra un tempo popolata dagli Umbri; con in più l’Eugubino che dal XV secolo apparteneva ai Montefeltro, l’Orvietano che era sempre stato Tuscia e togliendo il Reatino per restituirlo al Lazio: un ircocervo, qualunque cosa esso sia
Tra gli altri quadri fu esposto a Perugia un dipinto su tavola di Matteo da Gualdo, pittore assai originale nativo di Gualdo Tadino e presente in numerosi centri montani della regione, che veniva dall’abbazia di San Pietro ad Assisi e che ritraeva una Madonna col Bambino tra i santi Pietro e Vittorino. Tutto filò liscio fin quando la mostra fu visitata dallo storico dell’arte statunitense Frederick Mason Perkins, che con il suo infallibile occhio di ‘conoscitore’ – di mestiere Perkins faceva l’advisor, cioè segnalava la presenza nel mercato di quadri antichi a musei o collezionisti inglesi o statunitensi – vide subito che qualcosa non andava, che il quadro esposto non era l’originale bensì una copia, e lo segnalò in un articolo dedicato alle opere d’arte della mostra. Lo scandalo che ne seguì portò al ritrovamento del dipinto originale in una collezione privata romana, dalla quale tornò nel 1912 ad Assisi. Era successo che i monaci benedettini, temendo eventuali furti, avevano deciso di rimuovere il quadro da un altare in chiesa, ma prima di trasferirlo all’interno dell’abbazia lo avevano inviato per restauro a Roma. Era stato il restauratore romano a sostituire l’originale con una copia, chissà se per sua iniziativa o su espressa richiesta da parte dei religiosi: dopo l’unità nazionale preti e frati fecero cassa vendendo i beni di famiglia, cioè sculture e vecchi dipinti che erano molto ambiti dal commercio internazionale di opere d’arte – appunto il mestiere di Perkins! – prima che lo Stato desse vita alle Soprintendenze regionali con il compito di sovrintendere alla conservazione del patrimonio storico della nazione.
Il quadro dell’abbazia di San Pietro è un trittico su tavola di modeste dimensioni. Sopra il trono siede Maria con in grembo un bambino quasi integralmente nudo, salvo avere al collo un filo di coralli portafortuna. Dietro al trono sono disposti sei angeli: due suonano un organo portativo e una viella, due seguono le note di un libro, gli ultimi due ripetono in coro. L’identità dei due santi è svelata da scritte dipinte nella cornice sottostante. A destra della Vergine è san Pietro apostolo, santo titolare della chiesa che vi figura nel ruolo di vescovo di Roma con indosso un ricco piviale damascato e la tiara di pontefice. A sinistra della Vergine è san Vittorino, vescovo e protomartire di Assisi le cui spoglie riposano in una cassa marmorea sotto l’altare maggiore. Nella tavola centrale è presente un cartiglio con la scritta: Opus Macht[ei] de Gualdo sub mil[lesimo] CCCC (…) V die Aprilis. Nella predella sottostante è una seconda iscrizione con il nome del donatore, l’abate di San Pietro Bartolomeo: Hoc opus [fieri] fecit reverendus [Pater Dominus] Bartolomeus [Abbas Monasteri] S[an]c[t]i Petri de Assisce ad [laudem Dei. Amen]. Le prime notizie del quadro risalgono al 1872, quando ne scrisse Adamo Rossi segnalandovi i cartigli con i nomi del pittore e del donatore. Rossi non riuscì a leggere la data, che interpretò per 1460. Un decennio più tardi Tommaso Loccatelli Paolucci propose di leggervi 1468, lo stesso anno della parete d’altare dipinta da Matteo da Gualdo nell’oratorio dei Pellegrini ad Assisi, dove compare la stessa atmosfera insolitamente quieta e elegiaca caratteristica della produzione giovanile del pittore, ispirata ai pittori della “scuola camerinese” che avevano lasciato in Sant’Agostino a Gualdo Tadino (1462) e nella frazione di San Pellegrino (1465) due grandi polittici contesi tra Girolamo di Giovanni e Giovanni Angelo di Antonio.