“Pro remedio animae”: vabbé, di cosa parliamo? Della speranza che non tutto perisca insieme al corpo mortale una volta abbandonato dallo spirito vitale, lasciando solo ceneri e ossa sulla nuda terra. In biologia il fine vita è seguito dalla decomposizione per intervento degli innumerevoli microorganismi che ospitiamo all’interno delle nostre viscere, ma una volta morti da che mondo è mondo qualcuno, per pietà, per carità, per schifo, ha provveduto a dar sepoltura alla salma e a segnalarne la presenza mantenendo almeno il ricordo. La chiamiamo morte ma c’è sempre speranza che non tutto perisca, e allora parliamo dell’animaccia mia, la tua, la sua, che sopravvivono alla fine del corpo per ricongiungersi a quel non so cosa viene chiamato Dio, soprattutto se il cadavere è stato sepolto in terra consacrata e viene fatto oggetto di riti religiosi. E poi? “Lodato si’ mi’ Signore per Sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali; beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male”.
Le immagini all’interno delle chiese servono soprattutto a questo, a mantenere vivo il ricordo, siano poste sopra un altare o su una parete laterale accanto alla tomba che ne contiene le ossa. Se presentano anche il nome del defunto o di colui che ha pagato l’opera, possono essere un’immagine del potere, ma anche un più modesto invito alla preghiera. Insomma, servono pur sempre a qualcosa: non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore.
Se varchiamo l’ingresso della chiesa dei frati all’esterno del castello di Rocca Sant’Angelo, troveremo le pareti decorate da innumerevoli immagini antiche. Alcune rappresentano personaggi storici o storie riferite in libri antichi poste sopra tavoli con sopra una tovaglia in attesa dei commensali. È il banchetto eucaristico del quale parlano i Vangeli, e i personaggi che vi compaiono si attengono a una norma spiegata nel Vangelo di Giovanni: “Dio nessuno l’ha mai visto, ma il suo Figlio primogenito, che è nel seno del Padre, ce lo ha rivelato”. E allora lo possiamo rappresentare in figura come se fosse una persona in carne e ossa che mangia e beve insieme a noi, come un nostro vicino di casa, come se Gesù fosse nostro fratello. Altre immagini sono disposte pressoché a caso lungo le pareti, senza un ordine preciso, né cronologico né narrativo. Ritraggono figure di madri con un figlio ancora infante in grembo, o figure isolate di maschi o di femmine, a volte in compagnia di animali, a volte con un libro o un altro oggetto in mano, quasi nessuna con accanto un nome che ce ne sveli l’identità, quasi tutte accompagnate un tempo da scritte che cominciano col dire “questa figura l’ha fatta fare” e proseguono con il nome del donatore.
Se ci voltiamo alla parete di facciata, a destra della porta vedremo tre figure in fila: il primo è un maschio con un curioso cappellino in testa e una barba rossiccia, vestito da pagliaccio in calze e gonnellino, che si appoggia a un bastone da passeggio e solleva la gonna per farci vedere una brutta ferita sulla coscia nuda. Sotto i piedi le lettere XXVII stanno a dire 1527, alcune lettere incomplete formavano un tempo il nome del donatore. La seconda ritrae una donna seduta sopra un banco in pietra con un cuscino per non sentire freddo, vestita con l’abito della domenica, col figlio in grembo con un libro prezioso in mano. Anche questa immagine era spiegata da una scritta, ma non vi si legge più nulla. La terza figura è sempre una donna con accanto il figlio e sotto la scritta “Maria mater gratie” a svelarne l’identità. Si può dire lo stesso per la donna che le stà a fianco, dovuta a un seguace di Bartolomeo Caporali negli anni ’80 del ‘400, mentre il maschio che apre la fila è san Rocco ma senza il cane, non so di chi. Sotto la Madonna delle Grazie c’è un uomo che prega stando in ginocchio con un Paternoster in mano, insieme a una scritta che ce ne dà il nome, “Sancti de Menecarello F.F.”, e una data rovinata dove si leggono i numeri 1, 5 e 9, verosimilmente 1569 dal confronto con una Santa Caterina di Alessandria dello stesso pittore: Dono Doni o meglio ancora un suo stretto imitatore.
A guardarci intorno vedremo altre figure provviste del cartellino di riconoscimento. La Santa Caterina fatta fare da “Barbara de Cipriano e Sepia de … F.F. 1569”. Un donatore con indosso una vistosa tunica divisa di verde e d’argento e purtroppo privo del santo venerato perché Bartolomeo Caporali lo coprì con una Maria Maddalena, identificato dalla scritta “..S fecit fieri Cecc[o de Ioa]nne”. Un San Cristoforo con la scritta”Questa [fig]ura la fatta fare Pavole dantonio. M.CC…8”. Un Sant’Ubaldo vescovo di Gubbio identificato dalla scritta “Quista figura afato fare Cavalieri 1502”, accanto a un Sant’Antonio Abate con porcello per il quale si è perso il nome del donatore, entrambi di Orlando Merlini da Perugia. Un San Sebastiano che conserva la prima metà della frase dedicataria “Hoc opus faciendum curavit C…”. A scavare sotto il pavimento chissà non riemergano le ossa di lor signori.