Il Convitto ospitava (e ospita ancora) elementari, medie e liceo scientifico. Le scuole più vicine al Casone. Per questo i miei decisero che io e mio fratello Fausto avremmo frequentato lì elementari e medie. Ricordo il terrore del primo giorno di scuola in quell’edificio enorme e autoritario. Ogni spazio mi opprimeva – corridoi, scale, aule. Tutto era enorme, incombente. Scuro. Sulle pareti delle elementari erano state dipinte alcune scene della Biancaneve di Disney, e la strega con la mela in mano era un incubo. Chi sa perché gli adulti dimenticano il punto di vista dei bambini, che pure è stato il loro. Rimuovere dalla memoria la percezione di spazio, tempo, luce, buio, paura, fiducia che abbiamo nell’infanzia, quando tutto è grande e distante, è una forma di ubris, una presunzione colpevole che conduce a uno sminuimento sensoriale e conoscitivo (pure inevitabile). Il Convitto non m’ispirava pensieri di luce. Gli spazi, le librerie scure che contenevano libri tutti uguali, il silenzio inappellabile del corridoio d’ingresso, la vetrata dietro la quale s’intravedeva la mensa, le panche dell’attesa, le lapidi commemorative, il teatro con le sedie scure, il sipario pesante, non avevano niente di accogliente per bambini e adolescenti, e quel luogo, nel quale ogni giorno vivevano così tanti adulti e ragazzi, a me sembrava il più solo del mondo. E pensare ai convittori mi faceva sentire colpevole – io potevo uscire da quell’edificio costruito dalla retorica risorgimentale e fascista, mentre loro ci dovevano rimanere, lontani da una casa che è casa. L’unico posto che mi consolava era il giardino interno, con la palestra e il piccolo campo sportivo, dove si faceva ginnastica, o la ricreazione, quando era caldo. L’odore degli allori mi riconciliava persino con la strega dalla faccia verde che mi guardava con cattiveria mentre andavo in classe. Fu lì, vicino a quel terribile affresco disneyano, che, per la prima volta, mi capitò una cosa strana e bellissima. Mi vidi da fuori, come se fossi uscita dal mio corpo. Dopo qualche minuto rientrai in me. La cosa mi piacque così tanto, che imparai a farlo volontariamente. Anche se per poco, io non ero solo un io, ed era divertente. Solo più tardi, da adulta, capii che in realtà quel che facevo era terribile, perché percepii che la morte doveva essere così – sdoppiarsi, ma senza poter tornare ad essere uno. Eppure, alla morte ci pensavo, da bambina (come tutti i bambini). Tutte le volte che guardavo la foto del mio nonno paterno, morto nella guerra di Grecia. E un giorno, nel teatro del Convitto, mentre facevamo le prove di una recita, fissai una sedia. Io sarei morta, e la sedia mi sarebbe sopravvissuta. Gli oggetti vivono più a lungo di noi, non conoscono la paura della morte. Questa cosa mi sembrò così ingiusta che mi venne da piangere. Quella scura sedia dei primi del Novecento era la figura della mia finitezza, della solitudine che ci vede nascere e morire. Non potevo smettere di pensarci, soprattutto quando aspettavo qualcuno o qualcosa seduta alle panche del corridoio d’ingresso, fissando le lapidi. Poi, e già ero alle medie, arrivò la rivolta dei convittori, espressione di quel disagio profondamente umano che avevo sempre avvertito. Fui subito dalla loro parte. Chiedevano una lama di luce tra le oscurità risorgimentali e fasciste della mia scuola prigione e pensatoio. Quando la protesta finì, e le regole del Convitto cambiarono (almeno in parte) per i convittori, l’autoritario corridoio d’ingresso mi sembrò diverso. L’anno dopo sarei andata al liceo classico, e il Convitto sarebbe diventato un ricordo. Però lo lasciavo con la convinzione che sì, gli oggetti ci sopravvivono, ma ciò che conta è la luce, l’odore di alloro, ribellarsi per vivere nel modo più umano. La nostra esistenza è una permanenza a termine creata dal caso. Ma per questo è bella. Per questo la si deve amare, anche disperatamente. E perciò ho insegnato subito a mio figlio che le streghe dalla faccia verde esistono solo per chi invidia le sedie.