27 Febbraio 2021

La paura e il mito

Francesca Tuscano
La paura e il mito

Era già caldo, e una notte, alle due esatte, sopra la mia testa sentii tre colpi. Mi rigirai nel letto – il Casone era in campagna, di rumori strani se ne potevano sentire. Anche di notte, anzi, soprattutto di notte. Dopo cinque minuti, se ne sentirono altri tre. A quel punto avevo gli occhi sbarrati. Di nuovo silenzio. Poi, dopo lo stesso intervallo di tempo, altri tre colpi. I miei si alzarono, e mio padre andò a controllare il sottotetto, per capire se fosse entrato qualche animale. Niente. Il sottotetto era vuoto. I tre colpi intervallati dal silenzio continuarono a farsi sentire per quasi un’ora. Poi, più nulla. Ci riaddormentammo tutti, con qualche difficoltà. La notte seguente, alla stessa ora, la cosa si ripeté allo stesso modo. Il giorno dopo, i nostri vicini ci chiesero se sentivamo dei rumori, di notte. Così scoprimmo che ogni abitante sentiva i rumori come provenienti dal piano superiore – noi dal tetto, la signora L. dal nostro piano e la signora G. dal piano della signora L. Si iniziarono ricerche intorno a casa, per capire se qualche animale fosse salito sul tetto. Ma senza convinzione – se un animale avesse fatto rumore sul tetto, la signora G. non l’avrebbe neanche sentito, e la signora L. non avrebbe potuto sentirlo come noi, all’ultimo piano. E poi, quale animale batte tre colpi, e solo tre, a intervalli regolari e sempre alla stessa ora? I miei, razionalissimi figli della scienza (per quanto applicata all’umanesimo) tentarono in ogni modo di dare una spiegazione a quella strana cosa che aveva tolto il sonno a tutti gli abitanti del Casone, e che durava ormai da quasi un mese. Infine, la signora G. decise di recitare le preghiere per i defunti tutte le sere. I rumori finirono. Io ci misi ancora molto tempo prima di riuscire a non svegliarmi, alle due, ad aspettare con il respiro soffocato quei colpi. La paura era fascino. Tempo dopo, il professor B., caro amico di mio padre, ci disse che vicino al Casone, verso la valle del Tescio, si trovavano i resti del monastero di sant’Annessa, che, secondo la leggenda (o la storia) era stato devastato dai Saraceni che avevano ucciso tutte le monache. A ogni anniversario della strage si risentivano le urla delle donne trucidate, che oltrepassavano Porta Perlici – com’era accaduto in quella notte di sangue, quando gli abitanti di Assisi, chiusi dentro le mura, ascoltavano il rumore della morte che veniva dal Tescio. E dunque i fantasmi delle monache erano venuti a tormentarci? Non se ne parlò più. Ognuno si teneva dentro dubbi, certezze, paure, fantasie. Ma quei rumori non mi abbandonarono. E quando lessi che Pietroburgo era fondata sui cadaveri di coloro che la costruirono, mi tornarono in mente le Annesse. Anche loro, come i servi della gleba russi, erano morte per il Potere (quello con la maiuscola). Il Potere degli aggressori, ma anche quello di una città che assisteva senza far nulla a una strage – per far sì che la morte si fermasse fuori dalle sue mura, certo, ma i calcoli pur comprensibili del Potere non lo rendono meno disumano. È che il Potere deve tenere strette le sue radici nella morte, o meglio, nei morti, e non per esercitare banalmente un terrore che qualche volta può essere addirittura superfluo, quanto per dimostrare che il suo fondamento è solido, sacralizzato, simbolico. Il mito della paura (che è sempre paura della morte, della sua irrimediabilità) fonda il Potere, e si rinnova, e si rinnoverà, sempre su quell’archetipo, alla faccia delle nostre sbandierate conquiste civili, e delle nostre libertà che così spesso si rivelano fasulle. Ma quando la paura è nefas, vi dimorano i mostri. Quando invece si dice, la parola le rende un nulla che è tutto – la coscienza di non essere soli. È così che la parola sconfigge i mostri, pure quelli peggiori, quelli partoriti da noi. Con la parola gli abitanti del Casone fecero tornare il silenzio, nelle notti quasi estive. Con la parola il professor B. spezzò il fascino della paura per far nascere quello del mito. “Mamma, io ho una paura”, mi disse un giorno Giacomo. “Quale?”, risposi. “Di essere un sogno”. E il sogno era già diventato realtà, mentre ci abbracciavamo, sicuri di esserci davvero.

Francesca Tuscano

Francesca Tuscano laureata in Russo, Italianistica e Lingua e Cultura Italiana. Ha scritto di letteratura, teatro, cinema e musica russi. Lavora come catalogatrice di fondi musicali, traduttrice dal russo, librettista.

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