Il Casone era Assisi e non era Assisi. Le città medievali hanno un dentro e un fuori. Il Casone era fuori. Oltrepassare Porta Perlici era dunque importante, perché si entrava in città. E, ci crediate o no, era una sensazione che si provava. Si percepiva, attraversando le mura, la forma della città. Cioè, la struttura della sua socialità. Del suo essere un dentro. Una condizione condizionante. La forma della città nasce dalla vita di chi la abita. Più questa vita è armonica con l’ambiente che la ospita, più la forma della città sarà armonica. Più ci si allontana da quell’armonia, più la città apparirà disorganica e brutta. La bellezza è conseguenza, non premessa, della forma della città. E Assisi possedeva la bellezza che rendeva ordine ritmico ciò che la natura (dove ancora il Casone era) esprimeva nella mancanza di logos. Abitare al Casone era, dunque, un privilegio – essere doppi, appartenere a due bellezze. Piazza Nova si presentava subito come spazio sociale. I vicoli, le case addossate alle mura della Porta, il disegno intuito dell’anfiteatro, il Turrione che indicava il punto di congiungimento di un dentro e un fuori ancora più antichi, la costruzione retorica eppure armonica del Convitto che aveva contaminato tante costruzioni vicine – tutto era umano. Aveva una voce, un odore, i colori della pietra di Assisi e dei fiori ammassati alle finestre. E massimamente umano era il piazzale davanti al Convitto. Luogo di gioco, d’incontro, di chiacchiera, e parcheggio disordinato ma integrato alla socialità del circolo che occupava gli spazi della vecchia confraternita, di bar e botteghe, di case che si stringevano l’una all’altra non solo architettonicamente. Ci si era inventati anche una festa, l’estate, in quello spiazzo che era già passato dalla ghiaia all’asfalto. Poi, il piazzale ha smesso di essere Piazza Nova. È diventato un parcheggio a pagamento. Un segno, uno dei primissimi, della fine della forma della città che aveva resistito anche alla costruzione del monumento allo Stato risorgimentale (il Convitto non prevedeva proprietà privata di fronte a sé). Assisi iniziava ad essere considerata, brutalmente, solo una merce. Le pretese architettoniche di quel parcheggio non potevano occultarne la finalità. Anche Assisi, malgrado la sua storia, anzi, paradossalmente, a causa di quella, diventava una città che violentava la sua forma (cioè, la sua identità). L’idea che tutto possa essere merce, che l’umanità lo sia, che lo sia la storia e la bellezza, è distruttiva. L’amore per le cose e le persone che tocchiamo, guardiamo, ascoltiamo, liberamente, non è un bene retorico, ma il fondamento della nostra appartenenza – all’umanità generale che si specchia in quella particolare del dentro. Quando la socialità diventa un ostacolo per chi decide del futuro (del presente) di una città, la forma della città si sfigura. Assume i tratti stabiliti dal profitto, perde il suo legame armonico con l’ambiente nel quale e per il quale è nata. Entra nella logica dell’omologazione, dell’indistinto – ogni materiale, ogni geometria, ogni distruzione della natura è accettabile, là dove non ha più senso l’identità materiale (e dunque storica, e viceversa) che vive dell’identità sociale. Piazza Nova ora è in gran parte disabitata, come lo è Assisi in generale. E il parcheggio sta lì, soddisfatto, a dirsi che ha vinto lui. A mio figlio ho raccontato di com’era quella piazza che non esiste più. A lui, che viene dalla Cambogia, ma si dice aspromontano e umbro. Che non può conoscere l’Assisi che vedevo dal Casone, ma che dovrà fare delle scelte, quando sarà il momento, per quegli stessi luoghi. Non c’è futuro che non implichi un passato. E questo è il senso del presente – tanto ovvio quanto impercettibile.