20 Febbraio 2021

La logica del rasoio

Francesca Tuscano
La logica del rasoio

Tra Piazza Nuova e Piazza del Comune c’era un mondo. Ogni vicolo, ogni porta erano vivi. Da qualsiasi parte tu scendessi verso Piazza del Comune, ti accompagnava il rumore del lavoro, gli odori delle cucine e dei bucati. S’iniziava a salutare appena varcata Porta Perlici, e si finiva in Piazza. Si percepiva l’appartenenza – una cosa ovvia, naturale, come tutte le cose che vivono, non artefatta, come le cose che si pretendono ancora vive dopo averle uccise. I miei, pur essendo dei solitari, si erano integrati presto nella vivacità proletaria di Piazza Nuova e dintorni, memori delle loro origini altrettanto proletarie. Avevano fatto amicizia con gli artigiani, erano amati dalle famiglie dei loro studenti. E così, un pezzo di Piazza Nuova (ormai scomparso) arrivò a Bova, il paesino dei miei – case arroccate sull’Aspromonte che si apre allo Jonio, il centro della comunità dei Greci di Calabria. Nell’eredità greca il culto dei morti è fondante. E prima ancora di comprarsi una casa, i miei avevano costruito la tomba di famiglia. Mio padre si era innamorato del lavoro dei fabbri di Piazza Nuova, dell’abilità che avevano di creare volute leggerissime con la durezza del ferro, e ordinò le inferriate per la tomba. Nel piccolo cimitero di Bova, nel silenzio che d’estate si addensa del canto delle cicale e dei campanacci delle capre, sotto cipressi così odorosi da stordire, ora dorme anche mia madre, protetta dall’arte dei fabbri assisani. E quella tomba sta a dire che l’identità è sempre multipla, e nasce dal passaggio e non dalla stasi; che la bellezza non salva nulla che non sia già salvo. A Piazza Nuova, nei vicoli, abitava anche la sarta di mia madre. Abilissima, bella, allegra e serissima. Era coetanea di mia madre, e lo si vedeva subito da come si parlavano, come se esistesse un sottinteso incomprensibile a chi non viveva il loro tempo. Perciò chiedevo sempre a mia madre di accompagnarla alle prove dei vestiti. Era come partecipare al rito della donna che sarei stata, o almeno che avrei voluto essere. Anche mio padre aveva il suo sarto (anche lui un artista), ma in via San Rufino, la via delle meraviglie che portava al Mercatino delle Erbe, dove mia madre andava ogni settimana a fare la spesa, e io con lei. All’inizio del mercato, sotto l’arco che lo legava a via San Rufino, c’era il lattaio, che vendeva anche le uova e la frutta (e che ogni sera veniva a portarci il latte, con il suo bidone un po’ abbozzato, e mi sorrideva sempre). Poi c’era il susseguirsi delle signore che venivano dalla campagna, e con le quali era obbligatorio parlare almeno un quarto d’ora, prima di acquistare qualcosa. Il Mercatino delle Erbe era quanto di più antieconomico possa essere ora concepito, eppure, parlare era necessario quanto vendere. Un po’ più in alto dell’ingresso al Mercatino, in via San Rufino c’era il negozio degli incantamenti – ci trovavi di tutto, dai bottoni ai vestiti, alla signora G., che lo gestiva, una donna gentilissima e paziente, anche lei antieconomicamente appassionata di chiacchiere (pur mantenendo sempre una discrezione da vera signora). Quasi all’ingresso della via in Piazza del Comune, c’erano i negozi più importanti per noi figli, anche se ufficialmente lo erano per i genitori: la panetteria di R. e la sua pizzetta salata (ma il fine ufficiale era l’acquisto del pane), e l’edicola, dove, la domenica, andavamo a comprare Paese Sera per mio padre e mia madre, ma anche il Corriere dei piccoli e il Corriere dei ragazzi per noi. Esistono dei momenti simili al rasoio. Arrivano accompagnati da un frammento minimo di freddo, che dopo anni ti fa sentire (perché si tratta di sentire, non di capire) che un tratto di tempo si è chiuso, con tutto quello che c’era dentro, e in quella esatta misura – persone, situazioni, cose non esisteranno più. E quando ti capiterà di ripensarci, sarà una cosa che non appartiene più a te, ma alla memoria (astratta eredità comune sempre in bilico tra realtà e rimpianto). Qualche volta, Giacomo mi chiede se sono triste. Gli rispondo di no. Ed è vero. È che, guardandolo, penso a quanto la mia infanzia e la mia adolescenza siano state vicine, per spirito, a quella dei miei, e a quanto quelle di Giacomo siano ora lontanissime, anche dalle mie. Non che questo mi rattristi (rattristarsi per l’irrimediabile è insensato – e ogni tramonto ha una sua bellezza). Però anche a lui sarebbe piaciuta la quotidiana meraviglia della normalissima vita della comunità che io ho conosciuto.    

Francesca Tuscano

Francesca Tuscano laureata in Russo, Italianistica e Lingua e Cultura Italiana. Ha scritto di letteratura, teatro, cinema e musica russi. Lavora come catalogatrice di fondi musicali, traduttrice dal russo, librettista.

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