22 Maggio 2023

La famiglia

Redazione Assisi Mia
La famiglia

“Assisi, 8 febbraio 1938.

Eccellenza,

dal maggio dello scorso anno, mio figlio Vittorio Rinaldi, di Umberto, nato in Assisi 12 25.5.1913, si trova in angosciosa situazione ed ora è confinato politico in Latronico (Potenza) a cagione di sventurate circostanze per le quali la Commissione provinciale propose tale provvedimento in seguito a denuncia nr. 05929 della Regia Questura.

Gli altri come lui e più di lui imputati: Angelucci, Angeli, Fongo, Negrini, Ranucci, sono stati già prosciolti, in istruttoria i primi, e breve tempo dopo il Fongo, a Natale il Ranucci e il Negrini – è rimasto nel dolore dell’onta solo mio figlio – gli esecutori, nonché calunniatori del banale quanto stolto fatto, bene scontano l’espiazione loro inflitta, e meritata; mentre mio figlio non è umanamente equo che stia ancora nel cordoglio amarissimo; e di ciò potrà persuadersene l’Eccellenza Vostra anche dall’esame delle risultanze e da quanto espongo.

La inopinata accusa venuta da due cattivi soggetti non degni di fede, ha purtroppo colpito mio figlio, e il tutto, col provvedimento seguitone, ci ha inebetiti, sì che egli e noi, fidando solo nella giustizia, e sperando fermamente che la verità sarebbe venuta di certo a galla, non sapemmo a tempo svegliarci a render chiare nelle dovute forme le circostanze e le considerazioni che servivano a dimostrare la non colpabilità di mio figlio.

L’amara esperienza ci spinge ora va far presente per richiamarvi l’attenzione, che mio figlio è l’unico degli imputati che non abbia alcun precedente né politico né giudiziario, e che non ha reagito né dato in escandescenze durante le fasi della triste vicenda, sempre dignitoso e tranquillo nella ingenua fiducia che sarebbe stato chiarito, nel tranquillo disprezzo della stolta accusa.

Mio figlio è stato ottimo, fedele, onorato soldato di artiglieria, e se ne può giustamente vantare come se ne vanta, e tale non ebbe mai punizioni o rimproveri (4° regg.to Art. d’Armata – Piacenza); è sempre stato eccellente, ottimo e tranquillo artigiano, buon figliolo e buon lavoratore, tantoché un lavoro in ferro battuto a lui affidato ora trovasi incompiuto, non essendovi altri in grado di farlo, per la chiesa di san Giuseppe in Assisi.

Mio figlio ha tutt’ora buon nome in Assisi presso tutti, poiché non lo si ritiene colpevole di quanto addebitatogli, e sorprende che non sia già ritornato. Io chiedo alla paterna bontà e comprensione della Ecc.za vostra che voglia equamente far concedere a mio figlio la cessazione del doloroso stato di cui soffre, e ne ringrazio fin d’ora col più profondo e grato ossequio.

Assisi,

Dev.mo

Rinaldi Umberto”

C’è così tanto, dentro questa lettera firmata dal padre di Vittorio otto mesi dopo l’arresto del figlio, che non era possibile citarla solo per estratti. Firmata sì, ma non scritta (la grafia parla chiaro) e tantomeno composta, né è possibile dire oggi chi se ne sia fatto carico. Si è detto lettera ma la qualificazione di supplica, oggi percepita fuori dal tempo ma all’epoca ancora viva, le si addice di più. Il testo è efficace e attentamente calibrato: si racconta, si evoca, si descrive, quando è il caso si afferma anche recisamente e orgogliosamente, ma non si dimentica che si sta camminando sulle uova, e dunque tutto il possibile è concesso all’interlocutore, senza freni di dignità né scrupoli per terze persone (che d’altro canto non vengono in nulla danneggiate). Mai si ammette la responsabilità di Vittorio nei fatti contestatigli, anzi tutt’altro, ma neppure se ne sostiene insolentemente l’innocenza; se il Governo non ha ben giudicato è solo in quanto sviato da calunniatori, “cattivi soggetti non degni di fede”. Il sentimento prevalente che viene portato all’attenzione dell’ignoto destinatario (a chi è rivolta la supplica: al Duce, al Ministro della Giustizia, al Prefetto?) è il dolore di un padre che vede iniquamente trattato il proprio figlio, e riconoscendone gli errori impetra “paterna bontà e comprensione”. In sottofondo c’è la conferma di un fatto così inequivocamente presupposto da risultare evidente: Vittorio non ha mai confessato di avere partecipato al fatto della bandiera comunista. Ecco allora che nella supplica la sua posizione viene sapientemente sganciata da quella dei rei confessi, e invece assimilata a quella dei restanti coimputati, solo indirettamente coinvolti e già tutti in libertà.

La lettera diviene anche l’occasione di apprendere cosa ne è stato degli altri assisani arrestati con Vittorio il 22 maggio 1937, essendo questo uno degli argomenti decisivi della denunciata iniquità. Restano fuori gioco, da questo punto di vista, i due giovani che hanno immediatamente confessato il fatto e denunciato Vittorio, perché essi “bene scontano l’espiazione loro inflitta, e meritata”; ciò che fa pensare ad una parallela misura di confino di polizia, ma non è improbabile che solo per loro, rei confessi, sia intervenuta una (alternativa e più breve) condanna penale ex art. 654 c.p.. Viene inoltre citato un tale Angelucci, immediatamente prosciolto peraltro, di cui non si era avuta precedente notizia. Ma gli altri? Il disegnatore della falce e martello, il noto agitatore socialista Artaserse Angeli, è stato anch’egli prosciolto immediatamente, e su questo punto abbiamo utili notizie da un memoriale del figlio Maceo, che così racconta: “Una mattina fu issata una bandiera rossa sulle mura di cinta di Porta Nuova. Potete immaginare la reazione dei fascisti, che per mezzo di spie scoprirono gli autori della cosa. Risultarono autori tre: un certo Petalino, Rinaldi e*** furono arrestati, anche mio padre, che si trovava qui in Assisi per rimettersi in salute da una malattia; e per intervento del Podestà Fortini Arnaldo fu liberato e ripartì per Terni giurando che mai più sarebbe ritornato in Assisi, e purtroppo così è stato, perché anche dopo il 25 luglio famoso non tornò in Assisi. Poco dopo il primo bombardamento del 1943 uccise mio padre e il fratello Balilla. I tre giovani furono liberati, ma Rinaldi morì poco dopo per le botte che aveva ricevuto in carcere dagli sgherri fascisti”. In questo quadro il sentimento di ingiustizia di Umberto ha ben di che trovare alimento: perché Fortini, certamente influente, si mobilità per un vecchio tribuno socialista, e per lui solo? Non potrebbe però essere stato proprio lui, Fortini, il segreto autore del testo? Quanto ai restanti (Fongo, Ranucci e Negrini), anche per essi erano state a suo tempo disposta misure di confino politico, ma all’epoca della supplica sono già state revocate. Liberi anch’essi, il solo che continua a pagare (benché unico innocente, lascia capire l’autore della supplica) è Vittorio.

Cosa abbia convinto Umberto Rinaldi a firmare la lettera è ignoto ma facile da intuire, soprattutto alla luce degli eventi successivi che vedranno la vicenda approdare a buon termine abbastanza rapidamente. Qualcuno (prima si è evocato il Podestà Fortini, ma senza nessuna prova) deve avergli credibilmente prospettato la possibilità di tirare fuori suo figlio dal confino con grande anticipo, a condizione che inghiotta il proprio orgoglio di vecchio socialista e sappia mostrarsi rispettoso e sottomesso. Ben più difficile capire con quanta sofferenza questa scelta si sia consumata, che conseguenze abbia avuto sugli equilibri interni della famiglia (che opinione hanno al riguardo i fratelli di Vittorio, e le sue sorelle, e la madre?), come abbia impattato sulle relazioni sociali di tutti. Di sicuro la “normalizzazione” della situazione è una priorità anche professionale ed economica: Umberto Rinaldi terrà certamente alle proprie idee, ma vive di lavoro, e il bollino di antifascista militante non lo aiuta. Insomma, la vita non deve essere facile a Latronico, ma non lo è più nemmeno ad Assisi.

Diventa allora sensato e legittimo tirare fuori una domanda imbarazzante e spiacevole, ma tuttavia ineludibile: che ne è, a questo punto, della solidarietà familiare verso Vittorio? Che pensano di lui i suoi familiari? E’ uno sconsiderato che si è infilato in una solenne idiozia, non calcolando le conseguenze del proprio gesto sulla famiglia, o è invece un eroe idealista e generoso? È un giovane solitario plagiato da sobillatori che lanciano il sasso e nascondono la mano, o l’alfiere luminoso degli indomiti sentimenti familiari di rifiuto e ribellione verso il regime? Se ha incontrato il padre, la madre, i fratelli, prima di partire per il confino, qual è stato il tono di questi incontri, quale il tono della successiva corrispondenza? Cosa racconta pubblicamente la famiglia della vicenda (sapendo che gli informatori sono all’erta), e cosa privatamente? La famiglia intera sta pagando e continuerà a pagare un prezzo per un gesto che, verosimilmente, ha subito e non certo condiviso, e questo non può non contare.

Molti dubbi e una certezza: c’è molto dolore, in sottofondo, in tutti e per tutti. Una seconda certezza: solidarietà, rabbia, affetto, dolore, fierezza possono trovare uno spazio di (mai tranquilla) convivenza, in attesa di tempi migliori o che uno di questi sentimenti prevalga e soffochi gli altri. È su questo tronco che si innesta una testimonianza sofferta, generosa e toccante, quella del nipote di Vittorio, omonimo del proprio nonno: Umberto Rinaldi, anch’egli lambito dall’onda lunga di questa tragedia personale e familiare. Una testimonianza che chiude significativamente questa piccola pubblicazione, e la cui lettura è un complemento irrinunciabile del presente testo.

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