21 Maggio 2023

Il confino di polizia

Francesco Lampone
Il confino di polizia

Non sarà inutile a questo punto, spendere qualche parola di più sull’istituto del confino di polizia, ovvero il più efficace strumento (amministrativo, si badi, non penale!) utilizzato dal fascismo per comprimere il dissenso spontaneo verso il regime, mentre il famigerato Tribunale Speciale per la difesa dello Stato operò invece principalmente contro il dissenso organizzato. Introdotto nel 1926 come inasprimento del suo immediato antecedente (il domicilio coatto, vigente dal 1889), il confino fu perfezionato nel 1931 con il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Dal 1927 al 1943 la misura del confino politico fu inflitta a oltre 12.000 persone, di cui 177 morirono durante l’esecuzione della misura. A qualcuno interesserà sapere che l’istituto del confino fu dichiarato incostituzionale solo nel 1957, con sentenza della Corte n. 43, ciò che dovrebbe far riflettere tutti attentamente. Il suo erede tardivo, poi abrogato, è stato l’istituto del soggiorno obbligato per reati di mafia.

Il procedimento per il confino di polizia poteva azionarsi per motivi politici (“Possono essere assegnati al confino di polizia coloro che svolgono o abbiano manifestato il proposito di svolgere un’attività rivolta a sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici o sociali costituiti nello Stato o a contrastare o a ostacolare l’azione dei poteri dello Stato”) o per motivi comuni. In ambedue i casi l’iniziativa veniva comunque dalle Questure, che interessavano del caso il Prefetto. Questi, a sua volta, rimetteva tutto alla “Commissione provinciale per l’ammonizione e il confino politico”, da egli presieduta e composta dal locale Procuratore del Re, dal locale Questore, dal locale comandante dell’Arma dei regi carabinieri e da un ufficiale superiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. La Commissione istruiva la pratica, se del caso sentendo l’interessato, e all’esito poteva comminargli sia il confino in “un comune del Regno diverso dalla residenza abituale, oppure in una colonia di confino” per un periodo da uno a cinque anni (prorogabili), oppure semplicemente un’ammonizione, che comportava onerosi obblighi accessori. Contro la sola decisione del confino era possibile il ricorso a una Commissione di appello, presso la Direzione generale di pubblica sicurezza.

Il luogo di confino, normalmente una piccola isola o un luogo sperduto dell’entroterra, quasi sempre dell’Italia meridionale e più raramente centrale, era deciso dal Ministero dell’interno. Il confinato doveva consegnare i documenti civili in cambio della “carta di permanenza”, un libretto rosso da portare sempre con sé in cui erano annotate le sue generalità e le norme da seguire, e trovarsi da sé un lavoro. Era previsto per ogni confinato privo di mezzi un irrisorio sussidio giornaliero (dieci lire al giorno, poi dimezzate a cinque), peraltro soggetto a decurtazioni punitive.

L’esperienza di confino politico nell’entroterra si caratterizzava per la solitudine, mentre nelle isole poteva realizzarsi una piccola vita di comunità tra i confinati, tutti indistintamente comunque soggetti a sorveglianza e a obblighi stringenti. Questo il testo dell’art. 186 T.U.P.S.: “All’assegnato al confino può essere, fra l’altro, prescritto: 1° di non allontanarsi dall’abitazione scelta, senza preventivo avviso all’autorità preposta alla sorveglianza; 2° di non rincasare la sera più tardi e di non uscire il mattino più presto di una determinata ora; 3° di non detenere o portare armi proprie od altri strumenti atti ad offendere; 4° di non frequentare postriboli, osterie od altri esercizi pubblici; 5° di non frequentare pubbliche riunioni, spettacoli o trattenimenti pubblici; 6° di tenere buona condotta e di non dar luogo a sospetti; 7° di presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza, preposta alla sorveglianza, nei giorni che gli sono indicati, e ad ogni chiamata di essa; 8° di portare sempre con sé la carta di permanenza e di esibirla ad ogni richiesta degli ufficiali o degli agenti di pubblica sicurezza)”. Ciò ovviamente in aggiunta all’essenziale, e cioè al divieto di allontanarsi dalla colonia o dal comune assegnatogli, e il tutto con minaccia di sanzioni penali da tre mesi a un anno. Non molto a che vedere con la definizione di Silvio Berlusconi, quando nel 2003 dichiarava al settimanale inglese “The Spectator” che “Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino”. Magari pensava allo scrittore Curzio Malaparte, vicino al regime ma con sussulti d’orgoglio eterodossi, che per un affronto a Italo Balbo fu mandato al confino a Ischia prima e a Forte dei Marmi poi, grazie all’amicizia con Galeazzo Ciano.

Nel caso di Vittorio, il suo voucher vacanza viene staccato abbastanza rapidamente.

Deciso come impostare la questione, il questore Armando Grossi procede in data 4 giugno 1937 alla “Denuncia per l’assegnazione al confino di polizia”. Già il 10 giugno viene pronunciata l’ordinanza che dispone il confino. I componenti la Commissione Provinciale sono cinque: il Prefetto Sua Eccellenza Grand’Ufficiale Michele Adinolfi, il Questore Grand’Ufficiale Armando Grossi, il Sostituto Procuratore regio Ignazio Scotto, il comandante della 102ma legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale cavalier Enrico Valenti, il Capitano comandante di gruppo dei Carabinieri Regi cavalier Alfredo Angrisani. Il vice Commissario aggiunto di Pubblica Sicurezza Secondo Camilli ha invece istruito la pratica e svolto le funzioni di segretario. La Commissione ci va giù parecchio pesante: quattro anni di confino, poco meno del massimo. Il presupposto è che “Il RINALDI VITTORIO di Alberto come rilevasi dagli atti e dal rapporto dell’Arma Carabinieri Regi è individuo pericoloso per l’ordine nazionale, notoriamente di idee e di sentimenti sovversivi”. Addirittura. E tutto questo per una bandiera comunista esposta pubblicamente per poche ore. Anzi no, non una bandiera: uno “straccio rosso”, come scrive sprezzante nella sua prima informativa il Commissario Pubblica sicurezza di Assisi, dott. Billotta.

Pregiomi comunicare che il confinato in oggetto è giunto nel comune di Latronico ove è stato destinato il giorno 8 corrente. Il periodo di confino avrà termine il 21 maggio 1941” scrive il Prefetto di Potenza 8 luglio 1937. Dalla decorrenza finale del confino si evince che Vittorio dal giorno dell’arresto non è mai stato rimesso in libertà (e non sono state rose e fiori, come si vedrà), prima di essere deportato – è ben il caso di dire – a Latronico, che in quest’epoca ha un più di seimila abitanti (più abbondanti di ora), un’economia agricola in cronica sofferenza, una posizione geografica isolata.

Sulla vita a Latronico di Vittorio non si sa praticamente nulla. Il nipote di Umberto, Vittorio, ha però ricevuto recentissimamente una testimonianza indiretta da parte di un discendente della famiglia Conte, che allora gestiva a Latronico una taverna in cui soggiornavano quasi tutti i confinati che passavano di là. Sono notizie scarne e di seconda mano, quelle che generosamente Luca Pompeo Conte ha consegnato ad un suo breve scritto che si invita a leggere di seguito a queste pagine, accompagnato da due vecchie foto. Scarne e nondimeno belle e preziose: commuovono, indignano e insieme confermano il tratto schivo e tranquillo di Vittorio, che comunque una traccia durevole nella memoria dei suoi ospiti l’ha lasciata.

Francesco Lampone

Lavora come responsabile dell’Area Legale e Relazioni Internazionali dell’Università per Stranieri di Perugia. Si occupa occasionalmente, per passione, della storia di Assisi. Ha pubblicato per le edizioni Assisi Mia, in collaborazione con Maria Luisa Pacelli, il volume: Assisi: un viaggio letterario, dove si esplora l’identità cittadina attraverso lo sguardo di cento visitatori illustri.

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