Messo in moto il meccanismo che abbiamo descritto nel capitolo precedente, nei primi mesi del 1938 le cose vanno relativamente svelte, quasi altrettanto di quanto era accaduto in direzione inversa nella tarda primavera del 1937.
L’11 marzo 1938 il nuovo Commissario aggiunto di Pubblica Sicurezza di Assisi, Alfieri, scrive al Questore per informarlo come segue: “Ho riesaminato la posizione del Rinaldi e mi è risultato che lo stesso (…) nella nota faccenda della bandiera fu accusato di aver partecipato al fatto da altri due arrestati, però contro di lui non fu raccolto alcuno elemento di responsabilità (…) Lo scrivente in considerazione dei precedenti dello stesso, degli atti di clemenza fatti nei confronti di altri confinati implicati nella stessa faccenda, è del parere di far prosciogliere il Rinaldi al compimento dell’anno di confino”. A giudizio dell’Alfieri, la famiglia di provenienza è addirittura “l’unico pregiudizio esistente contro il Rinaldi”. La nota termina con le parole “Restituisco l’istanza”, il che potrebbe far riferimento a quella si è qui definita la supplica del padre di Vittorio, se non fosse che in successivi atti si fa diretto riferimento a una istanza di revoca del confino formulata personalmente dal confinato, che quindi deve essere esistita (ed è abbastanza ovvio: non sarebbe sopportabile che l’interessato si nasconda dietro un familiare) ma che non ci è pervenuta. Un’assenza accidentale, ma che ben si presta simbolicamente a descrivere l’attitudine di Vittorio, che a partire dall’arresto sembra subire passivamente la sua sorte, come stordito, atterrato da quello che gli accade.
Circa un mese dopo, il 13 aprile 1938, la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza scrive al Prefetto di Perugia: “si trasmette a codesto ufficio l’unita istanza con cui il confinato chiede di essere prosciolto dal restante periodo di confino. Il richiedente durante la sua permanenza a Latronico non ha dato luogo a rilievi. Si prega di riesaminare la posizione esprimendo il parere in proposito.”. Il parere richiesto è dato dal Prefetto il 7 maggio 1938: “In ordine alla nuova istanza prodotta dal soprascritto, quest’ufficio pur avendo presenti le conclusioni di cui alla prefettizia 05954 del 4 dicembre 1937, ritiene doveroso variarle ora, oltre che per i regolari precedenti dell’istante, soprattutto in considerazione degli atti di clemenza di cui hanno beneficiato gli altri confinati implicati insieme al Rinaldi nella esposizione dell’emblema sovversivo in Assisi, nonché per le speciali condizioni in cui trovasi la famiglia di costui, di condizione operaia.”. Neppure la famiglia è più un motivo di pregiudizio ora, al contrario.
Tutto conferma, come si vede, le ipotesi svolte sopra, notando come si sia conto anche di una precedente istanza di proscioglimento nell’autunno 1937, riscontrata negativamente dal Prefetto il 4 dicembre. Richiesto poco dopo di tornare sui suoi passi, il Prefetto si toglie d’imbarazzo appigliandosi volentieri agli argomenti della supplica: le necessità della famiglia e l’iniquità rispetto ai correi. Il cerchio è chiuso, il resto (il telegramma del 23 maggio con cui il Capo del Governo – addirittura! – dispone il proscioglimento dal confino, il foglio di via per Perugia rilasciato a Vittorio a Lagonegro il 27 maggio) sono solo cascami amministrativi. Per la cronaca: giusto il 25 maggio, due giorni prima, Vittorio ha compiuto venticinque anni.
Migliore attenzione merita invece il verbale del 29 maggio 1937, firmato dal Commissario aggiunto di Pubblica Sicurezza Gino Alfieri, perché pur nella sua fredda formalità preconfezionata è comunque efficace nel rappresentarci la posizione inevitabilmente sottomessa di Vittorio al suo ritorno nella città natale: “L’anno 1938 addì 19 del mese di maggio in Assisi e nell’ufficio di P.S. innanzi a me Titolare del predetto ufficio è presente Rinaldi Vittorio di Alberto Umberto di Moretti Eleonora nato Assisi 25.5.1913 fabbro abitante Borgo Aretino 8, prosciolto condizionalmente dal provvedimento del Confino, il quale viene da me diffidato a norma dello art. 356 del Reg. sulla legge di P.S. e cioè a tenere buona condotta e a non dar luogo a rilievi, di osservare le leggi e a non associarsi a persone comunque pregiudicate o sospette; con l’avvertenza che contravvenendo alla presente diffida sarà rinviato al confino per la durata di tempo non espiata, senza che sia computato il periodo trascorso in libertà.
Il Rinaldi prende atto della diffida e promette ottemperarvi”.
Già, ma che uomo è diventato, il Vittorio che fa rientro ad Assisi il 29 maggio? Come hanno lavorato sulla sua personalità i 12 mesi di confino? L’introversione più volte accennata si è forse accentuata, ha magari preso direzioni introspettive? Ha mai rialzato la testa? Non abbiamo nessuna risposta a queste domande, e sviluppare ipotesi in libertà pare ingiusto e pretenzioso. I rapporti di polizia si fermano qui, purtroppo e per fortuna, e le notizie di tradizione familiare si concentrano, stavolta solo purtroppo, sul versante più grave e urgente della salute fisica. Escono fuori pestaggi sistematici con sacchetti di sabbia al tempo dell’arresto, interrogatori duri e impietosi, sostanzialmente torture. Che sia questo il motivo per cui in nessun documento del fascicolo di polizia (e neppure nella supplica!) si accenna mai allo stato di salute del confinato? Nel complesso gliene sono piovute addosso abbastanza da spezzare un carattere, ma qui è anzitutto la salute che si è spezzata. Sono tempi in cui la diagnostica medica è più che approssimativa, seguita a ruota dalle capacità di cura, ma si sa che i problemi – problemi gravi – sono polmonari. Fatto sta che Vittorio finisce presto, forse subito, in un letto di malato. Di lui si prendono cura principalmente le donne di casa, come ovvio.
Questo stato di salute precario e, parrebbe, in lento ma costante peggioramento, non può non aver lavorato sugli animi dei familiari, e quindi anche sul giudizio verso i comportamenti che hanno infilato Vittorio in questo vicolo cieco. Se riserve c’erano, devono aver ceduto rapidamente (forse immediatamente) il passo alla pietà per chi stava pagando un prezzo smisurato. E alla pietà, complice l’impotenza, deve essersi altrettanto rapidamente essersi accompagnata la rabbia (una rabbia che si fa anche politica, in una famiglia così) per quell’ingiustizia. Ingiustizia doppia, per essere stato punito un gesto di libertà e perché lo si è fatto iniquamente. Doppia dunque l’indignazione, il risentimento, il desiderio oscuro e irresistibile di risarcimento, forse di vendetta, mentre si assiste giorno dopo giorno allo spegnersi di una giovane vita amata.
Su tutto questo, su questo terreno così interessante e assieme pericolosamente scivoloso, la narrazione deve fermarsi e il rinvio diretto all’intensa testimonianza del nipote di Vittorio, Umberto Rinaldi, non soltanto è d’obbligo ma non è sostituibile. Altrettanto d’obbligo è però riprendere da quelle righe, che chiudono questa pubblicazione, la memoria tramandata delle ultime parole di Vittorio: quel suo appello al perdono, alla pacificazione dei cuori, che forse meglio di tutto può illuminarci sugli esiti della sua breve, ma non certo inutile né indifferente parabola di vita. Sono parole che possono essere pessimisticamente derubricate come una debolezza di moribondo, o peggio ancora come una caritatevole leggenda familiare. Ma si può, magari più volentieri e ottimisticamente, credere che in questo generoso appello si sia condensata la riflessione intima e dolorosa di Vittorio Rinaldi sull’esistenza propria e, in definitiva, dell’umanità tutta.
In una città immersa – in buona parte suo malgrado e controvoglia, e inevitabilmente senza esserne all’altezza – allora come ora nel messaggio francescano, ce n’è d’avanzo per dire che questa di Vittorio Rinaldi è davvero, profondamente, una storia assisana.
Vittorio Rinaldi si è spento ad Assisi il 6 dicembre 1939.