In cucina, al Casone, c’era una parte rialzata alla quale si accedeva salendo un gradino. Quel gradino era un palcoscenico e il posto in prima fila a teatro. Quando mia madre cucinava e mio padre studiava, e in casa doveva regnare la calma più assoluta, io e i miei fratelli ci sedevamo su quel gradino e, a turno, leggevamo ad alta voce Pinocchio. Una scuola di teatro, perché nostra madre ci diceva di leggere “con sentimento” (come si usava dire a quei tempi). Ricordo la gioia di vederla sorridere quando il pubblico avrebbe dovuto sorridere, essere seria quando il pubblico avrebbe dovuto essere serio, fare di sì con la testa per indicarci l’attenzione con cui seguiva la messa in scena della narrazione. Molti anni dopo, mi fu detto che l’educazione data a me e ai miei fratelli era presa ad esempio, presso alcune famiglie di nostri coetanei figli della buona borghesia, in quanto utile strumento di terrore che produceva bimbi obbedienti. Insomma, la nostra casa era considerata una specie d’istituto di correzione stalinista. In realtà, era più simile a una specie di comune anarchica, dove esisteva un’unica norma indiscutibile – non disturbare lo studio di mio padre. Ma quella norma diventava, in mano a mia madre, un’opportunità da figli dei fiori: dipingere, ritagliare, scrivere, inventarsi storie, suonare il piano, cucinare, recitare Pinocchio – tutto quello che ci veniva in mente era sacrosanto, purché non superasse un certo livello di decibel. In un pomeriggio particolarmente creativo, riempimmo le scale d’ingresso di così tanti ritagli di giornale che non ci si poteva più camminare. Sì, più che a Stalin mia madre s’ispirava ai padri della beat generation (e lo faceva inconsapevolmente, quindi in modo davvero efficace). Il gradino-palcoscenico si trasformava in posto in prima fila quando arrivava A., una signora che abitava a Porta Perlici e aveva le stalle dei maiali poco sopra il Casone. A. giunse un giorno a casa nostra per chiedere a mia madre se poteva metterle da parte gli avanzi della cucina, che sarebbero poi andati a finire nei trogoli dei maiali. Mia madre le disse di sì, e così iniziò una prassi teatrale che durò per il tempo che rimanemmo al Casone. A. arrivava nel tardo pomeriggio e si metteva accanto alla finestra della cucina, mentre mia madre iniziava a preparare la cena. Non appena A. cominciava a parlare, io mi sedevo sul gradino, per ascoltarla. Era un personaggio teatrale come se ne incontrano pochi pure a teatro. Aveva lo stile inimitabile del vero arguto (quello che non sa di esserlo, come Giufà). Iniziava a snocciolare storie di mariti, mogli, amanti, figli legittimi e illegittimi, e Piazza Nova si trasformava in un palcoscenico che avrebbe fatto invidia a Pirandello e Artaud. Grandi amori e corna, atti di suprema bontà e tremenda cattiveria, pratiche legali e illegali si susseguivano in una narrazione che non aveva niente da invidiare ai romanzi d’appendice d’inizio secolo. Mentre A. parlava, Piazza Nova si trasformava nella Parigi delle signore delle camelie e la Londra dei Penny dreadful. Mia madre sorrideva senza commentare, discretamente, divertita da quegli scandali così umani, e intanto A. m’insegnava che noi produciamo false immagini di noi stessi per leggere le false immagini che gli altri producono di sé. Quando anch’io divenni personaggio del teatro che A. sapeva raccontare così bene, perché non potevo avere figli (essere sterili è un marchio divino), non ne soffrii più di tanto. Così come non mi fece piacere sentirmi dire che, adottando Giacomo, avevamo compiuto un atto quasi eroico. Nessuna delle due cose era vera. Noi siamo narrazione, e in una narrazione niente è vero, al di là di quello in cui si vuole credere. Una sera, un Giacomo piccolo piccolo mi disse che essere gentili non è importante. È importante voler bene. In quella distinzione stava il segreto dei sorrisi di mia madre, mentre ascoltava noi che recitavamo Pinocchio e A. che recitava le storie di Porta Perlici e dintorni. La distinzione necessaria ad ascoltare la narrazione che siamo senza giudicare, godendo solo del racconto. Dal gradino della cucina del Casone ho visto le vite degli altri (da quella di Pinocchio a quelle degli abitanti di Piazza Nova) in un romanzo fatto di sogni – i migliori, quelli a occhi aperti. “Perché realizzare un’opera se è così bello sognarla soltanto?”, dice Pasolini allievo di Giotto nella scena finale del Decameròn. Già, perché?