Al Casone abitavamo al piano più alto. Ogni finestra offriva un punto di vista assolutamente diverso, il che, per una bambina che pensava (con l’ottusa serietà dei bambini) che i libri fossero il mondo, significava permettere l’invenzione di una lunga serie di luoghi di meraviglia. Le finestre dello studio di mio padre davano sulla valletta del Tescio, e a ogni piena diventavano un palchetto da dove tutti insieme assistevamo allo spettacolo povero e gratuito di un finto fiume che inondava i prati ai piedi dei boschi e degli oliveti che tentavano la scalata del Col Caprile. Ma quello che mi attraeva morbosamente (sì, davvero con morbosità) era il bosco che, proprio sotto il Casone, si precipitava verso il Tescio. Un bosco conosciuto (andavamo a passeggiarci con mio padre), eppure sempre intatto nel suo essere limite allo sguardo (ricordo con quanta tristezza assistetti al suo taglio, ostinatamente sicura che gli alberi non sarebbero più ricresciuti). Dalla finestra della camera dei miei fratelli si vedevano la Rocca Maggiore e la grande cava che le mangiava la terra da sotto le fondamenta (fino a quando non la chiusero). Un castello e un grande incavo rosa erano una presenza così severa da impedirti di costruirci sopra delle storie. Eppure, guardarla era come parlare con un essere vivente. La Rocca non era luogo di fantasmi o cavalieri. La Rocca era la Rocca. Era lei la presenza. Indiscutibile e rassicurante. Dalla finestra della camera da letto dei miei genitori si vedeva il cimitero. Una presenza per niente triste. Addirittura rasserenante. È così bello il cimitero di Assisi, anche da lontano, che non può suscitare pensieri disperati sulla morte. È un giardino sui generis, con rose splendide e un viale profumato di cipressi che lo lega all’arco che si apre su San Francesco. Quando mio padre e mia madre arrivarono ad Assisi in viaggio di nozze, mia madre raccolse una bacca di quei cipressi, e se la tenne in borsa come un gioiello. Quando si trovarono a scegliere dove trasferirsi – tra le possibili mete c’era Assisi – mia madre ripensò a quella bacca, e disse a mio padre che voleva vivere dove l’aveva raccolta. Da quella bacca non si separò mai più. Il suo profumo le ricordava la felicità di giorni d’amore, spiritualità, libertà. Tutte parole banali, ma non per mia madre, che aveva intessuto l’amore per mio padre alla sua affermazione di donna indipendente, finalmente libera dai pregiudizi della piccola borghesia del suo paesino in Calabria, e mai dubbiosa su una fede davvero francescana. Dalla finestra della cucina si vedeva la strada che porta a Gualdo, e Porta Perlici. Era la finestra del controllo e della curiosità, il collegamento con gli umani. Poco da fantasticare, ma molto da osservare, anche quando non c’era nessuno che passava. Dalla finestra della mia camera si vedeva il succedersi dei monti di Gualdo. Lì, gli umani scomparivano. Perlomeno, nella realtà. Dietro quei monti, dove ora prosaicamente abito, da bambina immaginavo gli spazi e il tempo dell’infinito (che, molto più tardi, avrei scoperto essere una sensazione che gli adulti possono dire in poesia e in filosofia). Era possibile stare per ore a immaginare che dietro quei monti esistesse un mondo, talmente bello da essere spaventoso. Scrivere, leggere, e soprattutto guardare quel mondo era un rito mio, privatissimo – nell’oriente, dietro “il giogo di Nocera con Gualdo” viveva la vita futura, nella quale (lo avevo percepito adolescente) sapevo che avrei adottato mio figlio. Addormentare Giacomo è stato il momento più bello e terribile della giornata, quando era molto piccolo. Lui mi guardava con lo stesso sguardo distaccato della prima volta che mi aveva visto, e si affidava a me come quella volta. E io sapevo che è così che era andata perché era così che doveva andare, ed è così che vanno le cose, tutte. Sono tornata a guardare verso il giogo, ma dalla parte opposta, mentre tenevo la mano alla visione più tenera tra quelle apparse tra i monti di Gualdo, nel momento in cui chiudeva gli occhi e dormiva. Lasciandola andare, come doveva essere e sarà.