“Ė mejo magná le mele bisce, che parlá co’ chi ‘n capisce”
Il biscio, per quanti custodiscono petali di rose nel proprio vocabolario, è un orfanello adottato in tenera età, dopo aver perduto padre e madre senza averli conosciuti. Per chi ha rilegato fogli di carta vetrata in guisa di dizionario, il biscio è un bastardo, come naturale conseguenza della sua illegittima nascita. Lo stesso significante induce alcuni a pietà e benevolenza, altri a distacco e crudeltà. Nelle campagne al biscino, come veniva chiamato a sancire indelebilmente il suo status, nessuno ha mai fatto mancare un pezzo di pane, doveva solo guadagnarselo accettando di essere garzone al contadino. Di certo la sorte non ha salutato con un sorriso la sua venuta al mondo, né lo ha destinato a dolce vita ma all’asprezza dell’esistenza. Come asprigne sono le mele bisce, quando non attecchisce l’innesto e il melo rifiuta ogni altra pianta. Prive di gusto, sono l’estremo rimedio ai morsi della fame. Non ha invece soluzione il danno che dallo stolto può venire.