17 Aprile 2023

Horse Lords

Dionisio Capuano
Horse Lords

 “…le città hanno dei ritmi. I flussi e riflussi delle persone negli spazi pubblici e privati, il modo in cui sono progettati e sorvegliati, chi può accedervi e quando, tutto riflette modelli di sfruttamento.“ [Alexander Billet – La musica delle rivolte del ventunesimo secolo]

In principio era il ritmo. Lo cantano le Slits in un sette pollici diviso con il Pop Group e Mark Stewart, dalla sua, incalza ricordando che dove c’e volontà c’è anche un via. Davvero il ritmo è fisiologicamente costitutivo dell’essere, al di qua della volontà. Il battito del cuore, la cadenza del respiro. Ci spingiamo oltre. C’è ritmo nelle narrazioni dell’origine del mondo. In quella ebraica dello tzimtzum, la “contrazione” di Dio per fare posto alla creazione e all’uomo, è proprio nel suono della parola, onomatopea del contrarsi (e del ri-espandersi) della divinità. La dinamica del battere e levare, espirare ed inspirare, l’alternarsi del giorno e la notte sono diverse manifestazioni d’una scansione essenziale.

Quest’originarietà fa del ritmo forma di comunicazione assoluta, meta-culturale. Che siano il gamelan dei Pigmei, le danze balinesi o le poliritmie afrocubane, il codice ritmico trasmette meta-linguisticamente la sensazione d’una appartenenza ancestrale. E nella struttura-poetica dei quartetto di Baltimora esiste, appena sotto l’apparenza nevrotico-cervellotica, un intrico di memorie e vertiginose proiezioni transglobali.

Usando creativamente il ritmo si diventa, se non padroni, addomesticatori del tempo. Ne si accelera o dilata la percezione, innescando processi che ne alterano i meccanismi. E se si governa il tempo si può anche, in qualche modo, togliere potere alla morte. Com’è che cantava il menestrello… sei l’ospite d’onore del ballo che per te suoniamo / Posa la falce e danza tondo a tondo: Il giro di una danza e poi un altro ancora / E tu del tempo non sei più signora

Il ritmo e la danza: momenti essenziali della festa. E la festa è il momento per eccellenza in cui ci si riappropria del tempo, strappandolo al lavoro. Così musica e ballo diventano cruciali nella relazione tra individuo e sistema (di potere). Gli scenari sono diventati sempre più complessi. Con l’avvento della società dello spettacolo anche la festa è stata fagocitata dal potere, attraverso trabocchetti e formulazioni ingannevoli, delineandosi un mondo in cui sembra non esserci modo per sottrarsi dal controllo. Gli Horse Lords accelerano la struttura del c.d. rock fino a scardinarla dall’interno, liberando energia: una possibilità.

Le culture giovanili hanno messo in atto tutta una serie di fughe, pure vane e contraddittorie, ridefinendo continuamente il senso ed i luoghi della festa, sempre inseguite, e spesso riassorbite dal sistema. La grande galassia della musica rock (il genere non esiste, quando ne parliamo è come se dicessimo del rumore di fondo del Big Bang) è striata di queste traiettorie. Finiscono (quasi) tutte, ad un certo punto, nei buchi neri della massificazione ma si può percorrerle per alcuni tratti e quando è il momento prendere altre direzioni. Spesso sono salti nel vuoto.

Il ritmo è di fatto un’arma e come tale importa certo chi l’utilizza, come e con quali fini. Ma di più ancora è un luogo dove è possibile ritrovare matrici espressive archetipiche. Ascoltando Thruters potrà venire alla mente, ad esempio, Mdou Moctar e la figurazione geometrica ed astratta che accompagna la musica assumerà un carattere rituale e sciamanico.

Sull’onda del successo – nel ramificato e rizomatico circuito indie internazionale – dell’ultimo lavoro, “Comradely Objects”, il quartetto di Baltimora ha fatto tappa all’ineffabile Zut!, il nove di marzo. E si è respirata di nuovo un’atmosfera cosmopolita, eppure del tutto autoctona. Foligno policentro del mondo. Certe musiche e certe serate possono farti sentire a casa tua anche se sei a migliaia di chilometri da casa e farti sentire turbinosamente lontano nel flusso d’una elettricità globale, quasi stessi sperimentando connessioni limbiche à la Sense8, pur stando a meno di uno schioppo dai luoghi del proprio asfittico tran-tran.

La musica della band si  è trasformata, molto più calda e muscolare che su disco. Le alchimie emotive dei presenti fatte di chissà quali attese, stanchezze, frustrazioni, gioie immotivate sono entrate in risonanza con le strutture ritmico-cinetiche post minimaliste, il math-rock dalle geometrie non euclidee. Nessuna perdita di coscienza o controllo;  l’esperienza fisica di frequenze che scorrono lungo il corpo con effetto tonificante, le cellule che danzano anche stando fermi (come noi), l’energia ritmica che diventa sapore dell’aria che si respira. Le armonie in just intonation hanno trasportato un grumo di umanità eterogenea (musicisti e pubblico non si confondevano ma un po’ si trasfondevano), in uno spazio-tempo vibratile, interconnesso con altri luoghi, come se nel locale ci fosse qualche passaggio stile Exit West. Qualcuno uscendo si sarà trovato a New York, alcune persone a Kuala Lumpur, altre a Manchester, chi a Tangeri. Nella foresta amazzonica. Solo per un attimo. Giusto un battito.

Il modo in cui il suono e la musica vengono rimossi o impiegati negli sforzi della città neoliberista per controllare lo spazio è importante, sia che si tratti di divieti di suonare per strada o di musica classica utilizzata per scacciare gli indesiderati. Lo spazio cambia con il suono. [Alexander Billet – cit.]

Dionisio Capuano

È project designer e manager in ambito formativo e culturale. Collabora con la rivista Blow Up e tenta, senza successo, di mettere ordine nelle sue passioni per le varie forme dell'arte. Oggetto di studio in un recente saggio sulla critica musicale, ha pubblicato più di ottanta recensioni su dischi inesistenti ed è coautore di un album di musica elettroacustica.

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