30 Gennaio 2021

Giochi di pietra e di acqua

Francesca Tuscano
Giochi di pietra e di acqua

Se abitavi al Casone, potevi giocare in luoghi molto diversi – per gli spazi che offrivano, e per lo status sociale che rappresentavano. La strada, da Porta Perlici alla cava dismessa, era uno spazio tra civiltà e natura – la pista da corsa delle biciclette (ci passavano così poche macchine che potevi sentirti il padrone dell’asfalto, come un motociclista a Imola). Nella valletta del Tescio, invece, la civiltà scompariva – era il punto più basso, e felice, nella scala sociale. Era il luogo delle pietre e dell’acqua – la meta delle domeniche, alla fine dell’inverno, e di molti più giorni in estate. Ci si andava con mio padre (che così permetteva a mia madre di godere di un po’ di tempo solo per sé). Infilati gli stivali di gomma, si partiva verso il bosco che separava la valletta dalla strada bianca sotto il Casone (più tardi evolutasi, con mia enorme tristezza, in una strada asfaltata). L’attraversamento di quello spazio buio era già l’inizio del gioco. Stretto tra gli alberi e i cespugli, uno stradello portava alla valletta, tra canti di uccelli che mio padre ci insegnava a riconoscere – rigogolo, cuculo, tordo, usignolo, tortora, ghiandaia. Seguiva la lezione di botanica – carpine, ornello, quercia, ginepro, ciclamino. Quando il bosco finiva, mio padre ci indicava i ciliegi e le altre piante da frutta vicine alla grande casa accanto al ponte, attraversato il quale, il gioco era il Tescio. Mio padre ci insegnava a prendere i girini nell’acqua, con delicatezza, e poi a liberarli di nuovo, e a camminare sulle pietre dentro il torrente, a costruire dighe, a guardare le bisce d’acqua timide e verdi. Era fiero di insegnarci i giochi poveri della sua infanzia povera. La libertà l’ho imparata giocando nell’acqua del Tescio insieme a un padre che, non appena tornato a casa, si chiudeva di nuovo tra i libri – riconoscere piante e animali, e giocare dentro un torrente, avevano la stessa dignità dello studio. È così che ho capito che nei libri c’erano storie uguali a quelle che vedevo in un pezzo di cielo tra i rami di un ornello, o tra i sassi che frenano l’acqua del torrente. Il piazzale del Convitto era lo spazio del proletariato. Ci giocavano i ragazzi più grandi, figli e nipoti dei senatori che in inverno si riunivano all’interno della Confraternita di Santa Caterina, e ai primi caldi si spostavano lungo il piazzale, sulle panchine, osservando e giudicando, benevoli ma severi, chiunque passasse. Il piazzale della Rocca era simile alla valletta del Tescio, sebbene interno alla civiltà. Era ancora la libertà – di correre, cadere e frantumarsi le ginocchia, entrare con mio padre dentro il castello e avere paura delle scale a chiocciola, del buio di stanze e corridoi a quel tempo completamente vuoti, mangiare il gelato al baracchino più bello del mondo. Il Pincio era il ritrovo del cittadino, il punto più alto nella scala sociale ludica. Lì si poteva giocare solo se rigorosamente accompagnati da un adulto – si entrava nella civiltà, dove esistevano regole e prassi da rispettare. Al Pincio ci si andava vestiti bene, perché era un salotto, dove gli adulti si salutavano rispettosamente e chiacchieravano di nulla mentre i bambini giocavano. Il Pincio erano le altalene, grazie alle quali ho avuto le ginocchia sbucciate per almeno una decina d’anni, il monumento al cane che mi faceva una tristezza enorme (perché fare un monumento a un cane? era morto? era scomparso?), il laghetto dei pesci rossi (il luogo più bello del mondo, chiuso tra gli alberi, il profumo degli allori e i piccoli padiglioni). Era il gelato comprato all’ingresso. Giacomo non ha giocato tra le mie pietre e l’acqua – la valletta del Tescio non è più accessibile come un tempo, il piazzale davanti al Convitto è un parcheggio, alla Rocca ci incontri solo pochi turisti, il Pincio è irriconoscibile. L’identità è somma di spazi, tempi, parole, immagini, silenzi che non possono appartenere che a noi. Pietre. Acqua. L’identità è necessaria. E perciò un po’ mi dispiace di non poter più insegnare a Giacomo dove dare il primo bacio, in cima al Pincio. 

Francesca Tuscano

Francesca Tuscano laureata in Russo, Italianistica e Lingua e Cultura Italiana. Ha scritto di letteratura, teatro, cinema e musica russi. Lavora come catalogatrice di fondi musicali, traduttrice dal russo, librettista.

Seguici

www.assisimia.it si avvale dell'utilizzo di alcuni cookie per offrirti un'esperienza di navigazione migliore se vuoi saperne di più clicca qui [cliccando fuori da questo banner acconsenti all'uso dei cookie]