“Puó essere bella una persona, una cosa, una città, se significa solo se stessa, anzi il proprio uso? La bellezza non è il luogo dell’incontro tra sostanze e significati diversi, il punto della loro fusione, una specie di coincidenza dei contrari? E ci può essere posto per la bellezza là dove tutto ricade su se stesso, dove gli oggetti non esercitano la loro funzione ma la descrivono, dove domina incontrastata la tautologia? Non è scandaloso occuparsi di queste cose.”
Così rifletteva sul concetto di bellezza Saverio Vertone , nella citazione che ne fa Aldo Rossi presentando il suo lavoro “La città analoga”, alla Biennale di Venezia del 1976. E comunque Rossi commenta: “la bellezza è utile”.
Dall’uscita del pluripremiato film di Paolo Sorrentino nel 2013, il concetto di Bellezza ha letteralmente monopolizzato il dibattito pubblico in ogni aspetto del vivere civile, quasi una polluzione, amplesso liberatorio al culmine del processo di estetizzazione di ogni ambito del reale, nel contemporaneo post-postmoderno.
Il “bello” e la pretesa di esserlo ha ammantato tutte le superfici, una patina sensuale che rende ogni oggetto appetibile per il consumo e la mercificazione. Il Bello è Utile.
La parola è così entrata correntemente nel lessico civile, politico e esecutivo, per comparire dalle pubblicità alle denominazioni di bozze di leggi e decreti, fino a essere punto programmatico di piani di rilancio del territorio dopo la recente crisi.
Più della definizione del concetto di bellezza (la sua dipendenza dei canoni estetici e morali dell’osservatore, le implicazioni di esperienze e status di quest’ultimo, il concetto sociologico di sguardo specialmente applicato al turista) sembra dirimente il concetto di distanza di questo dall’opera. La necessità di un osservatore di essere abbastanza lontano dal quadro per elaborare un giudizio comunque soggettivo sulla base del suo bagaglio culturale.
Ma cosa ne pensano invece i colori del quadro?
Ezio Genovesi nel suo recente libro Assisi 1926 riporta le parole di Gustavo Giovannoni sull’importanza della cosiddetta edilizia minore per l’armonia, dell’euritmia e l’organicità del tessuto storico ai fini del valore dell’impianto complessivo della città, tracciando la strada che porterà a riconoscere i centri storici ai fini della tutela vere opere d’arte d’insieme.
Ma citando Cervellati e Bagnasco “storicamente l’arte della città è stata un fatto collettivo. La bellezza delle città era perlopiù rappresentata da quella dei loro spazi pubblici dove si esprimeva la socialità degli abitanti.”
L’oggetto di tanta ammirazione – dalle pagine delle guide a quelle patinate dei periodici, negli spot televisivi e nei social – è una città frutto della ristrutturazione continua, passando dalle sue diverse età. Gli edifici sono un palinsesto in cui è scritta la storia delle strutture stesse, ma soprattutto delle persone che vi hanno vissuto.
La scomparsa del soggetto di questo canovaccio (i residenti) va spegnendo non solo, come abbiamo visto, l’interesse del visitatore più accorto, in cerca di città vive e vissute, ma fa svanire lo stesso significato simbolico che i palazzi, le case, le vie e le piazze hanno avuto da sempre, cioè di luoghi espressione non solo dell’emancipazione economica, ma soprattutto delle passioni, dei diritti e dei doveri dei loro abitanti, intesi come comunità. Spariscono i colori.
Tornando alle argomentazioni di Genovesi ci accorgiamo che l’Assisi odierna è ancora frutto di una idea di città e di comunità generata da una persona che, per quanto illuminata, risale a 100 (CENTO!) anni fa e sorta per affrontare le sfide che un’altra epoca poneva.
Quel progetto ha portato a valorizzare tutto quello che è considerato “tipico”, non esisteva il problema ecologico, anzi vi era la tendenza a rompere il rapporto fondamentale di interdipendenza con la campagna e la montagna (fondamentali per il sostentamento della città), relegandole a cornice del quadro o allo svago.
Dopo un secolo abbiamo bisogno di una nuova idea di città, in grado di misurarsi con i problemi che l’oggi e il domani ci mettono davanti.
Sempre Aldo Rossi diceva: “Senza la capacita di immaginare il futuro non può esservi soluzione per la città in quanto fatto sociale per eccellenza.”