19 Maggio 2020

Il valore economico della socialità

Alessio Mariucci
Il valore economico della socialità

Il turismo esperienziale è oggi l’avanguardia di un’industria che muove il 10.4% del PIL Mondiale e sostiene 313 milioni di posti di lavoro. Questo trova la sua realizzazione nella volontà del fruitore di non fermarsi più davanti alla messa in scena dell’autenticità a uso e consumo più o meno consapevole del neo-borghese appena gratificato dalle ferie pagate, vera conquista e emancipazione dei lavoratori del boom. La nuova frontiera dello svago, del tempo libero è l’accesso al retroscena, lo spazio sociale che motiva l’esperienza turistica, il bagno di genuinità, che vuole l’ospite entrare nella quotidianità della comunità ospitante oltre lo schermo per parlare con loro, mangiare come loro, finanche dormire come loro, dove dormono loro. Anche ad Assisi.
Va da sé che la mano invisibile del mercato, armata da un modello di sviluppo puramente estrattivo, ha reso sterile ogni principio di cautela identitario e culturale, ha reso vane le riflessioni maturate sull’evoluzione storica dell’insediamento urbano, sulla densità e la prossimità di servizi e persone come contenimento delle relazioni e contro lo spreco della risorsa suolo in un’ottica di pensiero ecologico.
Situazioni di semplice integrazione o sostituzione del reddito da parte dei privati unito a pratiche autenticamente predatorie di grandi società immobiliari hanno generato così la sistematica messa a valore del patrimonio abitativo, con mobilità di persone, denaro e informazioni a fare da moltiplicatore a un processo fortemente gentrificativo, cioè con la sostituzione degli abitanti tradizionali con altri aventi maggiori capacità di spesa.
Le immagini delle Città d’Arte italiane che ricorrono nei telegiornali, in quelle che si apprestano a essere le ultime giornate di sfumata “post emergenza”, ci restituiscono ambienti metafisici, quasi lunari, in cui la retorica del ritorno di una naturalità sospinta e della riappropriazione degli spazi di vita da parte dei residenti lascia la scena a una realtà di sparuti pensionati, commercianti in disarmo e selvaggina.
E forse proprio dal “lato oscuro” del discorso economicista che può arrivare per le amministrazioni pubbliche la spinta ideale necessaria ad approntare politiche di lungo periodo di tutela degli ambienti di vita nei centri storici.
In mancanza di una nuova teoria politica delle città, adeguata al nuovo contesto economico e sociale, l’inveterato binomio Tutela & Valorizzazione è espresso dal pensiero economico turistico.
Questo avviene nella misura in cui la dimensione culturale e sociale della “risorsa città” è individuata come la prima da salvaguardare, tra le tante in gioco, per la sostenibilità e la piena rispondenza del “prodotto” alla domanda.
Mentre tutto l’impianto normativo del Codice dei Beni Culturali e urbanistico alle diverse scale territoriali è svilito e vilipeso in un continuo conflitto di attribuzioni che giova soprattutto agli interessi dei potentati di turno. In esso viene consentito  formalmente quasi ogni tipo di trasformazione degli spazi, alterazioni tipologiche delle destinazioni d’uso dell’edilizia storica minore.
Dell’originale spirito della Carta di Gubbio (1960) restano dichiarazioni puramente nominali di controllo delle trasformazioni insediative, sviluppo sostenibile e il simulacro degli “usi compatibili”. Ad essere effettivamente intangibile rimane il paramento esterno dei manufatti, in un’ottica  puramente estetica degli insediamenti storici, trascurando molto spesso la funzionalità sociale di una città come la nostra.  Una concezione del patrimonio come mera scenografia, set cinematografico in cui si rischia di mettere in scena una vita fatta di sole maschere.  Un teatro senza attori.  Una urbs senza civitas.

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