La favola di Orfeo ed Aristeo nel IV libro delle Georgiche parla chiaro. La Natura è mutevole, cambia forma, solo l’uomo che saprà adattarsi, come animale darwiniano, al corso degli eventi nonostante siano sfavorevoli condurrà un’esistenza pacifica. A chi invece indulge in lamenti e anela un ritorno ai tempi in cui godeva beato con Euridice, non adattandosi all’evoluzione della Natura, presto le menadi tormenteranno il suo cuore. Il mondo è Natura, la società è Natura, il Calendimaggio è Natura.
Sembra forse esageratamente dogmatica come affermazione, ma rende bene l’idea: la festa, al di là di tutto, è di chi la fa, è lo specchio delle inflessioni e dei caratteri dei loro protagonisti. A differenza delle altre feste che pullulano in Umbria e altrove, al Calendimaggio spetta il privilegio di non essere una rievocazione cementificata in stringenti sfilate o corse che poco spazio lasciano all’inventiva. Una delle sue migliori peculiarità è proprio la possibilità di stravolgere, capovolgere i valori convenzionali, il poter cambiare, costruire e poi distruggere come nelle più autentiche feste del Medioevo.
Ogni anno, più o meno, si cambia percorso delle scene, si cambia il soggetto, i mestieri, i banditori, si cambiano le allegorie del corteo che spaziano dal primo periodo francescano al 1442. Per la musica non ne parliamo. Secoli fervidi. E cambiano, soprattutto, le persone con cui si fa Calendimaggio. Ma i mutamenti della festa non sono recenti, la festa ha iniziato a variare gradualmente da quando è nata. Voglio dire che per ogni generazione il Calendimaggio più autentico è quello vissuto quando si è giovani, e vedendo la metamorfosi (spesso poco riconosciuta nei meriti e nei valori dei posteri) paragonata a ciò che era il “proprio” concepire “spirito maggiaiolo”, calzato a immagine e somiglianza, ecco che tutto sembra svanito, tutto perduto, e alla prima dissonanza si urla alla perdita di valori. E pensare che il metule, oggi ormai simbolo imprescindibile dai riti della festa, entrò in piazza solo nel 1980 (alla sua 27° edizione). Chissà come i più conservatori, familiarizzati a cortei lirici e più che decorosamente ordinati, hanno valutato l’ingresso di giovani, magari avvinazzati, che hanno issato un palo fallico?
Marcello Rossi ha concepito per primo le scene dove l’intreccio narrativo le facevano da padrona dando alla narrazione un sviluppo congruo dal principio alla fine: un soggetto, per dirla in termini cinematografici. Chissà come è stato vissuto questo cambiamento, venendo da una tradizione ove fino ad allora il recitato era un agglomerato di pezzi separati gli uni dagli altri come in una cornice decameroniana dei più ligi e autorevoli Meccoli e Molini? L’avranno presa bene il Bigale e Bruno Zucchi quando il 1971 vide le “falangi rosse, strepitosamente vittoriose” entrare per la prima topa del bando? E il Gioba o Luciano Laffranco cosa avranno pensato della rivoluzione dei cortei di un giovanissimo Antonello Campodifiori? La domanda ora sorge spontanea. E negli ultimi dieci anni, facciamo venti per i più nostalgici, come è cambiato il Calendimaggio? Cosa ha apportato di nuovo, di rivoluzionario e geniale?
Vero è che quando parecchio viene detto, difficile è proporre l’inedito. Un nudo di Goya che fece scalpore nella Spagna cattolica di fine Settecento, oggi risulterebbe quotidiano. Ma sta proprio qui la scommessa per chi oggi è parte attiva: la talentuosità è anche riuscire a dire una cosa per la prima volta. L’alternativa è sotto gli occhi di tutti, capitolare in quello che lentamente sta già avvenendo: un appiattimento generale con successiva omologazione a tante altre manifestazioni del circondario.
È dunque d’obbligo, per essere all’altezza della sfida che il momento storico chiede, affrontare l’evolversi del Calendimaggio attraverso la tradizione, rispettando le peculiarità caratteristiche della festa, senza dover spaziare in mondi che nulla hanno di calendimaggesco. È d’uopo correre su due binari paralleli che rendono l’amata festa un unicum: il tenace carattere folklorico da un lato e la costante ricerca culturale dall’altro. Tutto può cambiare ma entro una cornice ben definita di postulati insostituibili. Bisognerebbe vedere la festa non come rievocazione germinata nel 1954, ma carpirne l’essenza più profonda: la goliardia delle brigate che intonavano in provenzale, le tradizioni contadine del canto a recchia, i riti preromani del metule e del maggiociondolo. Se unito a ciò si conserva o si corrobora la passione per l’indagine – teatrale, musicale, letteraria, storica – il Calendimaggio non rimane solo rievocazione medievale ma diventa esperienza totalizzante, che catapulta i partaioli, e i fortunati fruitori, in un medioevo filtrato dall’aspetto magico e romantico della primavera assisana e si potrà affermare il Calendimaggio come esperimento sociale pienamente riuscito.
Forse non è troppo tardi per tirare certe conclusioni, sicuramente più auspicabile se fossero state considerate quando il Calendimaggio viveva il suo periodo aureo, quando ancora tutto si poteva di fronte al bivio: rilanciare veramente la festa o perpetuare tra le singole parti la coltivazione ognuna del proprio giardino?
Se è giusto che il Calendimaggio di oggi cerchi di indagare e cogliere gli aspetti positivi di quello di ieri, almeno su un paio di quesiti deve interrogarsi quello del passato: come lo ho lasciato ai miei figli? E che disegno ho elaborato per mantenere ciò che finora si è costruito?.
Ora, di fronte ad una statica aporia, sembra quasi un “costruire su macerie”, dovendo magari, con l’amaro in bocca, strizzare l’occhio ad Open e Non solo Medioevo “per mantenermi vivo”. Su ciò le parti dovranno dialogare. Ma forse, le lotte intestine, non appartengono inscindibilmente anche loro alla storia assisana?