L’emergenza che stiamo vivendo a causa di questo maledetto, subdolo, ancora sconosciuto nemico che è il coronavirus, con i disastri e il dispiacere che sta creando, e la preoccupazione di ciò che avverrà nel prossimo futuro per sua conseguenza, hanno fatto rievocare le epidemie del passato e specialmente la peste, la “morte nera” che più volte imperversò anche nel territorio della nostra penisola. Un’epidemia batterica, mentre questa attuale è virale. Per quella famosa peste del 1348 la storia ha individuato l’origine, in Asia nei territori della Cina del nord o forse nell’Asia centrale, secondo le varie fonti; certo è che si diffuse rapidamente fino ad arrivare nel 1346 nel bacino del mediterraneo. Nel 1347, durante l’assedio di Caffa, colonia genovese in Crimea, si dice che il khan tartaro Gan Bek fece lanciare alcuni cadaveri infetti all’interno delle mura della città, dando così origine al contagio di cui furono “untori” i marinai genovesi, che con le loro navi “trasportando” il morbo lo diffusero ovunque essi approdassero. Un’epidemia rovinosa, praticamente incurabile all’epoca che, presa come “flagello di Dio” veniva curata con processioni e riti comunitari di preghiera, cose che ne facilitavano invece, come intuibile, la diffusione.
Anche ad Assisi la peste del 1348-1349 fece i suoi guasti. Contribuì in modo significativo alle rovine che seguirono alla già precaria situazione determinata dai rapporti di belligeranza con Perugia e dal furto del tesoro papale, perpetrato da Muzio di Francesco a cui seguì la scomunica per la città proclamata da papa Giovanni XXII. La perdita di uomini per conseguenza della peste, aggravò notevolmente la questione e anche lo stato economico della città. Basti pensare che il Comune, come si legge anche in Documentazione di Vita assisana. 1300-1530 di Cesare Cenci, dovette provvedere alla nomina di dieci notai che raccogliessero, pubblicassero e dessero esecuzione ai testamenti rilasciati dai malati di peste in punto di morte. Ma in effetti di infezioni di peste che funestarono la città dal XIV al XVI secolo, stando alla documentazione conservata nei vari archivi della città, ve ne furono parecchie. Ben ventitre se ne contano nell’opera di schedatura di documenti di Cesare Cenci già citata. Talvolta entrambe le sciagure, guerra e peste, combattevano insieme contro la città. Nel 1430 lo stesso vescovo abbandonò Assisi per paura del morbo e nel 1497, le truppe comandate da Astorre Baglioni assaltarono la città già prostrata dalla peste; di ciò ci racconta Francesco Maturanzio nella sua Cronaca della città di Perugia descrivendo la situazione di Assisi infestata dal morbo << Dentro nella città era sì gran morbo e peste che lingua umana non lo porria dire e per più male era in Asese così gran carestia e penuria quanto mai più fosse stata e io ho parlato cum mia propria lingua cum homine che a quel tempo erano nella detta città de Asese, che recordandose de quel tempo de carestia e murìa e guerra tutti se bagnavano de lacrime>>, strano a dirsi, ma la città non fu espugnata in quel frangente perché, continua l’autore perugino <<li Ascesciani se erano fatte homini bellicose e nell’arme suefatte tutte inique e disperate>> . Guerra morte e infezioni e terremoti non aiutarono certo il rifiorire della città di Assisi, anche se enti come le confraternite trassero, da queste situazioni tragiche, grande vantaggio economico, perché la grande quantità di testamenti che furono rogati in presenza di ogni epidemia di peste, contenevano lasciti in danaro e in proprietà che i testatori devolvevano alla Chiesa e alle confraternite per la salvezza della propria anima. D’altro canto cos’altro, all’epoca, poteva alimentare le speranze della gente se non gli atti di devozione privati messi in atto nel chiuso degli oratori o nei riti pubblici: le processioni, i gonfaloni, come spiega bene Paola Mercurelli Salari nel suo articolo I Gonfaloni della Peste , in cui viene rappresentata la preghiera degli abitanti della città, l’ invocazione per l’intervento di Gesù Cristo della Vergine e dei Santi, per risolvere miracolosamente la situazione.
In questo nostro tempo le cose seppure assai cambiate per il progresso scientifico che ci consente di studiare il genoma di un qualcosa che misura 80-160 nanometri, ci pongono comunque interrogativi di ogni tipo, le cui risposte sfuggono ai più e le notizie che si hanno non sono mai tanto chiare da essere facilmente comprensibili; tuttavia in attesa di un vaccino che debelli il morbo, si auspica un comportamento sociale corretto perché almeno si rallenti la corsa dell’epidemia che sta costando veramente tanto a questo mondo; i credenti cercano di render più efficace l’opera della scienza con la preghiera. Intanto un primo miracolo si è verificato ed è l’opera indefessa, ben al di la di quanto dovuto, di tutti coloro che continuano a lavorare in tutti i settori che lo richiedono, ma non solo l’abnegazione del personale medico o delle forze dell’ordine o di coloro che ci assicurano quanto necessario per la vita di tutti i giorni, ma anche la forza e la solidarietà che viene dimostrata da tutti i volontari. Questo bene comune, se non ricominceremo a vivere ciascuno nella propria cella “telefonica” e individuale, sarà la piattaforma di partenza che ci consentirà di ricominciare appena finita la situazione che sta creando la pandemia.