Ridare luce a un poeta oggetto di culto locale, Lorenzo Calogero, nato a Melicuccà (Reggio Calabria) nel 1910, morto nel 1961, con una travagliata vicenda esistenziale che lo vide diventare medico e poi divenire affetto da nevrosi, preziosa voce dell’ermetismo non solo italiano. Apparteneva a una famiglia benestante, l’esercizio della professione medica mai troppo felice, quindi soprattutto tanta e tanta solitudine, tantissima vita psichica, travaglio interiore che lo induce a un grande investimento poetico. Nelle sue liriche si avverte con forza la concretezza e insieme la fragranza della sua terra, il senso della radice, il desiderio e il contatto del mondo visibile, a cui si aggiunge un tessuto onirico, partecipe del linguaggio ermetico e della nuova lirica novecentesca. “Cos’è la poesia? È la mancanza di quell’altrove che siamo, della nostra stessa alterità, di quando ci troviamo in una misteriosa relazione con tutto ciò che esiste, con il ritmo delle cose e il respiro del cosmo, un sentimento del sacro, dove il sacro coincide con la realtà stessa. Calogero aspirava segretamente all’invisibilità. L’altrove della poesia privilegia l’ombra e il silenzio, l’antimondanità e lo smarrimento, si mantiene a incommensurabile distanza dal potere, politico, accademico, letterario, genera un disadattamento felice. La poesia è un linguaggio che implica una tecnica…, ma prima ancora è un modo di essere, uno sguardo immaginativo, intensificato, fatto di limpida meraviglia sulla realtà, quasi l’attenzione vigile di un sonnambulo: ‘Sono il solitario origliare di ciò che dorme’ (Calogero)…. Lui raccoglie il chiunque rendendolo universale, trasfigura il quotidiano in bene comune. Il poeta si inabissa rischiosamente nella propria solitudine, ma fino a trovare la comunità (il noi diceva Caproni), esplora il proprio altrove fino a incontrare l’altrove di tutti… I suoi versi dissonanti e trasparenti, lunghi quanto il respiro di ciascuno di noi, parlano a tutti” (F. La Porta)
Fuga di Pensieri
Fuga di pensieri lontana.
Mi percuote un’onda fugace
dentro una dolcezza non vana
di ultimi pensieri non miei,
segreti neri non veri angosciosi.
Quanto ho disperso mi guarda,
mi grida o mi sgrida.
Lontano mi risveglia
in un grido e mi guida
sopra una riva,
nei teneri tuoi occhi,
perduta fuori di mano.
Ho perduto ciò
che non sapevo
e custodivo gelosamente,
quando angeli stanchi
sulla cima dormiente degli alberi
fredda non odono,
nel freddo velo
buio scarno che spira
nella mattina secca
a ponente.
Vieti pensieri,
rapidi occhi
voi passaste
e viveste un’ora sola.
Un sordo brivido svapora
dai miei sentimenti
nei tenui tuoi
teneri occhi dormienti.
Angelo della mattina
Angelo della mattina
risvegliami ancora
per la nuova fulgente aurora
che s’arrossa sull’orizzonte
o s’incrina.
Io sono uno strano mendicante
che chiede amore e parole,
sono un solitario emigrante
verso le terre della luce
e del sole.
Vienimi coi tuoi fulgori,
angelo che non ristai,
coi tuoi infiniti fulgori
colle movenze che tu sai,
e crescimi delle meraviglie,
di quanto raccogli
negli occhi neri,
degli infiniti misteri
che tu celi
dentro l’arco dei cigli.
Fammi conoscere
ciò che tu conosci
i riflessi della tua bocca chiara;
mutevolmente nel mio cuore
già amara
è una musica
una magica forma,
in una pioggia che scrosci
…E quel che mi rimane
… E quel che mi rimane
è un poco di turbine
lento di ossa
in questo orribile viavai
dove è alzato anche
un palco della morte.
Ma io mi sento
sempre spento.
Un poco di nebbia
mi assale.
Ed io ho amato
un fiore di biancospino
nelle tue giunture,
nelle tue ossa,
nelle aperte contrade.
Guarda non più di ieri;
e la sagoma amata
dorme accanto
ai futuri cipressi
colla giovinezza
della tua gloria.
Ma dimmi;
e perché mi ami?
la tua giovinezza passata
e futura era una foglia
e perché da un lembo stai.
Ma tanto,
quel che ho amato
era la tua giovinezza scorsa
e remota come un canto
nel canto imminente
della sera.
Io mi interrogo e domando
Io m’interrogo e domando
a me stesso e se so qualcosa
taccio. Quando cade plumbea
dal cielo di gennaio la pioggia
che tocchi col tuo passo e questo
era il senso o quello del suono
del letargo, non più basso
delle nubi il dominio del volo
del vento era disceso. Sapevano
altri interrogarti. Aerea fugge
una cortina di nuvole.
Quel ch’io fui
dentro una filigrana,
se una veste
chiara sui prati
s’addensa ancora,
io non credo più.
L’allodola è fuggita
dall’arco del suo cielo.
Nel silenzio, nello squallore
una vita squallida è toccata.
Guarda! Una linea scende mesta
dai monti prona:
mista ad una lapide
è segnata.
Lettere d’amore
Mandai lettere d’amore
ai cieli, ai venti, ai mari,
a tutte le dilagate
forme dell’Universo.
Essi mi risposero
in una rugiadosa
lentezza d’amore
per cui riposai
su le arse cime frastagliate loro
come una selva di vento.
Mi nacque un figlio dell’oceano.