Oggi dedichiamo la rubrica a uno scrittore di culto, Eduardo Galeano (1940-2015).
In questo momento storico nel quale stanno rimontando a folle velocità le retoriche della forza, dell’uomo solo al comando, del più forte che si mangia i più deboli, della guerra e della corsa al riarmo alla quale sacrifichiamo le scuole, la sanità per tutti, l’accoglimento di chi fugge dalla miseria, dalla violenza, dalle stragi più sanguinose, dove stiamo diventando quasi tutti più poveri e meno liberi, rivolgersi a un personaggio meraviglioso come Galeano significa mettersi almeno un po’ dalla parte di chi è nemico delle bugie, dell’indifferenza ma soprattutto nemico dell’oblio. ‘La sua tenerezza è devastante, la sua onestà furiosa’ (J.Berger). Scrive l’autore: “Nel mondo così com’è, il mondo alla rovescia, i paesi che custodiscono la pace universale sono quelli che fabbricano più armi e quelli che ne vendono di più agli altri paesi; le banche di maggior prestigio sono quelle che riciclano più narcodollari o che custodiscono denaro rubato; le industrie di maggior successo sono quelle che avvelenano il pianeta; e la salvezza dell’ambiente è l’affare più brillante delle imprese che lo distruggono…Il mondo alla rovescia ci allena a vedere il prossimo come una minaccia e non come una promessa, ci riduce alla solitudine e ci consola con droghe chimiche e con amici cibernetici. Siamo condannati a morire di fame, di paura o di noia, se non accade che una pallottola vagante ci abbrevi l’esistenza. Sarà forse questa, la libertà di scegliere fra quelle disgrazie minacciose, la nostra unica libertà possibile?”. Ed ancora: “…Anche se siamo fatti male, non siamo finiti; ed è l’avventura di cambiare e di cambiarci ciò che dà dignità a questo sbatter di palpebre nella storia dell’universo, a questa fugace fiammella fra due ghiacci che siamo noi”. Tra i suoi libri memorabili ricordiamo Le vene aperte dell’America Latina, Il libro degli abbracci, Splendori e miserie del gioco del calcio, Memoria del fuoco, A testa in giù. Eccovi alcuni brani scelti in prosa che però riescono ad essere anche poesia, parole che tornano a passare dalle parti del cuore.
La festa
Dolce era il sole, limpida l’aria e senza nuvole il cielo. Immersa nella sabbia fumava la pentola di coccio. Nel tragitto tra il mare e le labbra, i gamberi passavano per le mani di Zè Fernando, maestro di cerimonia, che li immergeva nell’acqua benedetta dal sale e dalla cipolla e dall’aglio.
C’era del buon vino. Seduti in cerchio, tra amici dividevamo il vino e i gamberi e il mare che si apriva, libero e luminoso, ai nostri piedi.
Mentre tutto questo accadeva, quell’allegria cominciava a farsi ricordare dalla memoria e sognare dal sogno. Non avrebbe mai avuto una fine, e neppure noi, perché siamo tutti mortali fino al primo bacio e al secondo bicchiere, e questo lo sa chiunque, per quanto poco sappiamo del mondo.
Le impronte digitali
Sono nato e cresciuto sotto le stelle della Croce del Sud.
Ovunque io vada, mi seguono.
Sotto la Croce del Sud, croce di bagliori, vivo le tappe del mio destino.
No ho nessun dio. Se ce l’avessi gli chiederei di non farmi morire: non ancora. Mi manca tanta strada da fare. Ci sono delle lune alle quali non ho ancora abbaiato, e soli che non mi hanno ancora acceso. Non mi sono ancora immerso in tutti i mari di questo mondo, che dicono siano sette, né in tutti i fiumi del Paradiso, che dicono siano quattro. A Montevideo c’è un ragazzino che spiega:
“Io non voglio morire mai, perché voglio giocare sempre”.
L’aria e il vento
Vado per i sentieri, come l’asinello San Fernando, un po’ a piedi, un po’ camminando.
A volte mi riconosco negli altri. Mi riconosco in chi resta fisso dov’è, negli amici-rifugio, magnifici matti innamorati della giustizia, insetti alati della bellezza, e poi negli altri girovaghi e sfaccendati che vagano per queste lande e continueranno a vagare, come le stelle della notte e le onde del mare. E perciò, quando mi riconosco in loro, sono aria che impara a sapersi perpetuata nel vento.
Mi sembra che sia stato Vallejo, Cesar Vallejo, a dire che il vento a volte cambia aria.
Quando non ci sarò più, il vento ci sarà, e continuerà ad esserci.
La parentela
Siamo parenti di tutto ciò che sorge, cresce, matura, si stanca, muore e rinasce.
Ogni bambino ha molti genitori, zii, fratelli, nonni. Nonni sono i morti e le colline. Figli della terra e del sole, annaffiati dalle piogge femmine e dalle piogge maschi, siamo tutti parenti delle sementi, del mais, dei fiumi e delle volpi che ululano per annunciare come sarà l’anno. Le pietre sono parenti delle serpi e delle lucertoline. Il mais e il fagiolo, che sono fratelli, crescono insieme senza picchiarsi. Le patate sono figlie e madri di chi le pianta, perché chi crea è creato.
Tutto è sacro, anche noi. A volte noi siamo dei e gli dei, a volte, sono semplici personcine.
Così dicono, così sanno, gli indigeni delle Ande.
La folata
Sibila il vento dentro di me.
Sono nudo. Padrone di niente, padrone di nessuno, neppure padrone delle mie certezze, sono il mio viso nel vento, controvento, e sono il vento contro il mio viso.