Affonda lo sguardo nell’abisso, provati, inoltra lo sguardo itinerante tra le moltitudini stellari mentre lentamente le attraversiamo [Il Potere delle Parole – Edgar Allan Poe]
In una estate in cui l’Umbria suona e risuona di spettacolari transumanze musicali, in modo provocatorio e cicero pro domo nostra, ci viene da dire che l’evento sonoro più intenso e sconfinante sia stato e resterà Segnaletica Per Occhi Spenti, sei serate di luglio, trecento e passa persone accompagnate a sperimentare che, sì, l’orecchio è l’occhio della mente e che la voce canta, di per sé, già nelle metriche poetiche, ma finanche nelle narrazioni prosastiche e in quello che (gli) sta attorno. O meglio, se non canta, provoca / evoca tangenzialmente un canto, molti suoni.
Non si inventa nulla, nemmeno per così dire in termini tecnici e teorici: nelle pratiche musicali correnti lo spoken word è processo consolidato, la poesia sonora – nei suoi caratteri proteiformi – vi si è innestata da tempo. John Cage con Indeterminacy ha divelto gli argini dei generi decenni fa. Nessuna pratica rivoluzionaria, apparentemente un teatro di parole risonanti – neppure un vero teatro sonoro – consustanziato in un bisbigliare-mormorare ramificato in testi che fioriscono di situazioni, personaggi, storie, (non) diversamente da una canzone, disperdendosi al limitare del bosco.
E la melodia? E l’armonia? La cantabilità? Viene da dire, eccome se ci sono (state), (erano) della stessa galassia di quelle inseguite da anni dagli ascoltatori – esploratori di I’m Sitting in a Room di Alvin Lucier. Là i “segmenti della catena parlata” decadono e si atomizzano in una nuvola di frequenze: dentro, fantasmaticamente, può trasparire di tutto. In quelle sere sono stati il combinarsi biochimico del flatus vocis, i suoni interstiziali d’ambiente (il vento, voci distanti, il passare di un veicolo, tamburi e folate di strumenti chissà-chi-dove) a trasformare le memorie d’ascolti sedimentati nel cuore e nell’anima a far scaturire risorgive di frammenti di pentagramma (addirittura, certo), trasformandoli in astrazioni di colonna sonora, tutta propria delle coppie monadiche viaggiatore – ascoltatore.
Una forma ancora più assoluta di Automatic Writing. Ed è possibile, sarà pure successo in qualcuna delle promenade, che il raccontare sia scivolato nel bisbiglio da dormiveglia, nell’involuntary speech da sindrome di Tourette di cui il capo-lavoro di Robert Ashley costituisce lussureggiante vetta poetica, con un considerevole aplomb emotivo-estivo.
Una polifonia asimmetrica ed asincrona a canali separati. (non) Ci si immagina cosa potrebbe aver sentito un super-orecchio in grado di ascoltare tutt’insieme i flussi della decina di performer che hanno contaminato lo spazio – tempo della Rocca Minore nelle tre – quattro sessioni di “esecuzione”. Cose per un Imaginary Landscape ancora da venire… ancora tu, Cage. Forse John contesterebbe il poco spazio dato al silenzio e alla chance. Peraltro, chi avrà voluto gettarsi dal trampolino l’avrà fatto. Ampliare le pause, aggiungere al buio un silenzio inatteso, o incongruo, destabilizzando ancor più il contesto di relazione.
Ad ogni viaggiatore-ascoltatore è stata cantata una super-canzone emozionale, sostanziata nella dinamica e nella struttura dell’esperienza più che nel contenuto specifico (i testi, come spiegare, affabulati) della “partitura”. Tant’è che – crediamo – che sia un’esperienza destinata a rimanere, nella sua intensità, una volta fatta, non ripetibile. Quando svalichi in un territorio sinestetico, ci sei entrato. È dato.
Cosa può esserci, or dunque, d’altro e d’oltre? Non si riesce ad immaginarlo, sicuramente esiste una forma-contenuto che può evolvere il percorso, ma i flashes – men che intuizioni – non siamo in grado di tradurli in un quid comunicabile. Come si può cantare l’ineffabile? Iperbole e retorica ci stanno prendendo (per) la mano, d’accordo. È su di un dirupo ideale che finiva il viaggio. Anzi, finiva proprio con il “dopo la caduta”: stare distesi sul prato dentro la Rocca minore era l’esito di una vertiginosa, fors’anche lenta, caduta. Giusto prima dell’ineffabile appena intuibile, tra le folate di vento ed il fresco odore dell’erba. Poi…
Tutti i qualcosa al mondo cominciano a intuire la loro unità / quando succede qualcosa che ricorda loro il niente [Conferenza su qualcosa – John Cage]