Salendo per via Superba, da San Francesco alla Piazza del Comune, a mezza strada s’incontrerà l’oratorio dei Pellegrini, costruito da una compagnia di uomini che si recarono in visita al santuario di Santiago di Compostella in Galizia. La parete d’altare è decorata da un grande affreschi di Matteo da Gualdo (Gualdo Tadino, notizie 1462-1507), che ritrae una Madonna col Bambino e angeli musicanti, e dai santi Giacomo e Antonio Abate, una Annunciazione nella lunetta. Una iscrizione presente in un cartiglio a sinistra ci restituisce il nome del pittore e la data di esecuzione del dipinto: «Hoc opus factum fuit sub an(n)o d(omi)ni · m(i)l(lesim)o · quatroce(n)tesimo · sessagesimo octavo die primo junii · Matteus de gualdo pinsit». Nel cartiglio in mano al Bambino: «FIAT». Accanto all’Angelo annunziante: «Ave Gra(ti)a Ple(n)a». La parete d’altare dell’oratorio è decorata da un grande affresco con una architettura illusionistica che simula un edificio in laterizio aperto in un portico sorretto da quattro pilastri e ornato da ghirlande. La luce centrale è occupata da un trono marmoreo sopra il quale prende posto Maria nell’iconografia della Theotokos, con il bambino marciante in grembo. Ai suoi piedi due angeli suonano un liuto e una viella. Altri quattro angeli dietro la spalliera suonano un salterio e un organo portativo, un piffero bicalamo e un tamburello, mentre quattro angeli cantano a cappella. La luce a sinistra è occupata dall’apostolo Giacomo, con tunica e pallio, in mano un libro e un bordone con la sacca da pellegrino ornata da una conchiglia. Nella luce a destra è sant’Antonio Abate, con l’abito monastico e un camauro rosso in testa, un libro e un campanello nella mano sinistra e un bastone in forma di tau nell’altra. Ai piedi dell’abate si vede un minuscolo cinghiale. Due angeli all’esterno della loggia portano un candeliere con una candela accesa. Altri sei angeletti sono seduti sopra l’architrave del portico e gettano fiori in aria.
Nella lunetta soprastante è dipinta la storia dell’Annunciazione: l’angelo che entra da sinistra nella casa di Nazareth recando un giglio in dono; la Vergine che interrompe la lettura stando seduta a uno scranno al centro della stanza, dietro il quale si affaccia un cagnolino. Le due figure sono divise da una finestra che da luce all’ambiente; negli sguanci compaiono quattro angeli cantori. Il nome di Matteo da Gualdo e la data primo giugno 1468 in caratteri gotici che compaiono su una targa in finto marmo illusionisticamente inchiodata sulla parete in mattoni alle spalle del san Giacomo sono stati letti e commentati sin dalla Storia della pittura italiana di Giovanni Rosini (1841). Originario di una modesta città di provincia a mezza strada tra Camerino e Foligno, nelle quali città Matteo trovò i suoi modelli di formazione, fu questi un pittore eclettico di vaste conoscenze e di notevoli frequentazioni, ma seppe mantenere uno stile personale che lo rese inconfondibile tra i pittori del tempo. Gli affreschi dell’oratorio dei Pellegrini sono un centone di citazioni dai più diversi pittori, partendo dalla forma stessa della targa con la firma che imita i cartigli a trompe-l’oeil ideati nei paesi fiamminghi da Jean van Eyck e Roger Van der Weyden. Il repertorio delle citazioni va dalla soluzione del portico ripresa dal polittico di San Zeno del Mantegna, ai cipressi sullo sfondo che copiano Benozzo Gozzoli, la figura della Vergine che s’ispira al polittico di Brera di Giovanni Angelo di Antonio, mentre l’Annunciazione nella lunetta segue la pala di Perugia di Piero della Francesca, gli angeli musicanti guardano i quadri perugini di Giovanni Boccati e quelli che lanciano fiori i rilievi dell’Oratorio di San Bernardino di Agostino di Duccio. Un inedito omaggio ai Salimbeni compare nel cagnolino alle spalle della Vergine. Eppure il profilo allungato dei volti e gli occhi a mandorla orientali sono un motivo inconfondibile «in questa sorta di lontano antenato campagnolo di Modigliani (grottesco anziché patetico e rusticamente monocorde)» (Zeri 1983), che si conquistò un ruolo dipingendo figure dotate di una grazia agrodolce nella stagione del “Rinascimento umbratile” (Longhi 1926), ancora incerta tra Gotico e Rinascimento.