23 Gennaio 2023

Le buone intenzioni

Francesco Lampone
Le buone intenzioni

Al crepuscolo del XIX secolo un parigino, Jacques Camille Broussolle, batte le campagne umbre in cerca di suggestioni. Ne scaturirà un bel diario di viaggio nell’Umbria minore, che nell’assisano mette in valore Rocca Sant’Angelo e la sua chiesa, povero scrigno di preziosi affreschi. Acutamente, lo scrittore francese annota: “Ai piedi d’Assisi, e proprio accanto a ciò che un tempo fu la solitudine amata da San Francesco, delle case si raggruppano intorno a Santa Maria degli Angeli. Ci sono già delle osterie, presto ci vedremo delle locande, e sarà davvero invano che la città in alto protesterà contro dei simili turbamenti”.

Senza troppo ricamare sulle doti profetiche di Broussolle, vero è che egli intercetta un segnale del passaggio in corso (tardivo per l’Italia, e ancor più per l’Umbria) dall’economia rurale alla modernità tecnologica e industriale, che sta sabotando le basi materiali del diseguale rapporto simbiotico città/territorio che da sempre, ad Assisi come altrove, drena risorse dalla campagna alla città, in un asservimento così antico da risultare culturalmente assimilata all’inevitabile.

A questa sfida spiazzante ogni città ha risposto come ha potuto. Nell’orizzonte ragionevolmente comparabile (le città circonvicine, la Toscana, le Marche, il Lazio settentrionale) la varietà di soluzioni marca però un tratto comune: il capoluogo è riuscito, bene o male, a conservare nel tempo a seguire il suo ruolo storico di leadership aggregante, salvaguardando (o adattando, o inventando) un proprio tratto identitario sufficientemente ampio e accogliente da neutralizzare le spinte centrifughe o isolazioniste. E questo rimane vero anche dove oggi (è il caso della vicina Perugia) il centro storico è in grave sofferenza e il territorio invece dinamico, straordinariamente esteso e abitato.

Si può dire altrettanto di Assisi? Con tutta evidenza no.

Nel’indifferenza degli osservatori esterni, comprensibilmente concentrati su altri temi, la collettività di Assisi registra oggi un distacco tra capoluogo e territorio di pertinenza la cui intensità sconcerta. La città antica, serrata nel giro superbamente esibito delle mura medievali, assediata da visitatori, orfana di servizi pubblici e privati e di attrattive non turisticamente orientate, è percepita dagli abitanti del territorio circostante come un luogo “da visitare”, non “da vivere”. Non un luogo “loro” quindi, ma “altrui”, o magari anche di nessuno, poco conta: conta invece che la città non gli appartiene, ed essi non le appartengono. Un po’ come chiunque di noi quando se ne va in gita o in vacanza, e per quanto possa apprezzare il posto che sta visitando, ha però ben chiaro che casa sua è altrove, altrove il suo investimento esistenziale. Che poi Assisi, benché scarsamente rispetto alle possibilità, resti comunque una città abitata complica le cose. Con sentimenti non lontani dalle vestali di un tempio, gli sparuti epigoni dell’assisanità si godono fieramente la bellezza del luogo e insieme ne lamentano la perduta vitalità, non trascurando nel frattempo di segare ogni tanto il ramo su cui sono seduti.

Si converrà come questo sottovalutato fenomeno sia invece abbastanza straordinario da meritare una ricerca delle sue cause, che per motivo ovvi investono le scelte urbanistiche, ma che assieme ne presuppongono un sostrato culturale.

Torniamo perciò all’Assisi a cavallo tra ‘800 e ‘900, sonnecchiante nell’Italietta liberale e povera come la regione cui appartiene, benché non della miseria feroce che morde altrove lo stivale. È una povertà antica e il patrimonio edilizio, fermo com’è all’impianto medievale con qualche inserto successivo, basta a raccontare quanto indietro si debba cercare l’ultima fase di prosperità. La percezione che la città ha di sé è piuttosto debole:  la  minima porzione di abitanti che, affrancata dal bisogno e dotata di mezzi culturali, potrebbe gingillarsi con temi identitari lo fa distrattamente. Ma il medioevo è guarda caso di moda, una voga tardo romantica che lambisce la provincia (e tutta l’Italia è provincia, allora) più tardi che altrove. I colti visitatori stranieri confermano che di quel medioevo onnipresente c’è di che andare orgogliosi, altro che vergognarsene! Assisi si abbandona volentieri a questa onda lunga, ed ecco allora che gli sventramenti urbani per modernizzare la viabilità, altrove spietati, qui sono più cauti; in parallelo, e le nuove costruzioni non disdegnano il neogotico.

Nel primo dopoguerra, tutto accelera grazie alla straordinaria personalità di Arnaldo Fortini. Avvocato di talento e reduce, in fase con la modernità del suo tempo, Fortini è convintamente fascista e sarà prima Sindaco, poi in continuità l’unico e indiscusso Podestà del comune. Libero da vincoli elettorali, perseguirà decisamente una sua grandiosa visione di Assisi, ben più ambiziosa del piccolo cabotaggio della precedente classe dirigente liberale. Patria di uomini e donne straordinari, può Assisi non esserlo anch’essa?

Forte del prestigio di uomo amico personale di scrittori e poeti e in relazioni dirette sia con Mussolini che con la Casa Reale, conscio dei propri mezzi, il Podestà mette a sistema tutto l’armamentario simbolico esistente e ne produce creativamente di nuovo, esprimendo il massimo sforzo attorno all’anniversario francescano del 1926 per installare definitivamente nelle glorie medievali (magari un po’ tirate per i capelli) di Assisi l’età eroica cui ricondurre sia l’estetica urbana (e se ne vedono delle belle!), sia l’immaginazione dei suoi concittadini. Sta intelligentemente sfondando una porta, se non aperta, certo non chiusa. Il sorprendente risultato è la fondazione di una sorta di religione civile di Assisi, legata a filo doppio al francescanesimo ma da esso distinta, che Fortini si premura di dotare del corredo necessario: inno (con suo testo), stemmi, ritualità, valletti in costume, luoghi sacri, ordini cavallereschi, festa di primavera, frasi ad effetto… Ha l’abilità di farsi ascoltare da tutti gli strati sociali della popolazione, la quale farà durevolmente proprio un apparato ideologico che l’entusiasma, la rassicura e la lusinga

Ma non perdiamo il nostro filo di Arianna: che ne è del territorio, della montagna, del contado, della pianura che già si popola di attività produttive, abitanti, edifici? Nel maestoso sogno neogotico di Fortini, il loro ruolo è perfettamente ancillare: seguitino dunque a fare il loro dovere, con la gratitudine di poter contribuire a far risplendere la patria del più santo degli italiani e del più italiano dei santi! Non è granché, ma anche le controspinte sono ancora molto limitate, quindi facili da gestire. È ben difficile che chi ha denaro e/o istruzione, e chissà perché non è già integrato al capoluogo e alle agenzie sociali del consenso, ambisca ad altro che a una rapida cooptazione. Ma non durerà.

Su un piano più prosaico, qualche finanziamento straordinario ottenuto non impedisce al Comune di Assisi di scontare il sogno visionario del Podestà con un impressionante deficit di bilancio. Arriva poi la guerra che porta lutti e spavento, certo; ma in definitiva Assisi ne risulta graziata e questo, nella percezione collettiva, non fa che confermarne la mitologia. “Assisi avrà guai, ma non perirà mai”, ed ecco tutti accontentati. Con il dopoguerra però la musica cambia. L’Italia comincia a correre quasi più svelta delle proprie gambe e sono in molti ad essere presi in contropiede. Assisi, tutt’altro che ricca, esita: occorre inseguire una vocazione turistica evidente, ma che anche nei migliori momenti (l’anniversario del 1926 e il giubileo del 1950) non basta a creare ricchezza in modo significativo e tantomeno prevalente? O trovare un modo per agganciare lo sviluppo industriale, agroalimentare e manifatturiero, che altrove sta stravolgendo equilibri sociali millenari e devastando il territorio? Gli anni decisivi sono quelli dal 1955 al 1958 in cui si concentrano, perfettamente concatenati ma non perciò necessariamente convergenti, due avvenimenti chiave.

È nel 1955 che il Comune, guidato dal sindaco Cardelli (liberale con lista civica, ma anche dirigente della Perugina) conferisce a un illustre urbanista di area socialista, Giovanni Astengo, l’incarico di formare il primo Piano Regolatore Generale. Un adempimento dovuto, certo, perché Assisi è nell’elenco dei 100 comuni a ciò tenuti: ma altrove se la prenderanno più comoda e con meno entusiasmo, mentre Astengo  e  Cardelli vorrebbero dare rapido e rigoroso corso a uno dei primissimi casi di applicazione della “Legge urbanistica” del 1942; e questo in anni in cui l’edilizia morde ovunque con appetito famelico, anni di palazzinari e di cemento (poco percentualmente, perché costa) facile. Ad Assisi si organizzano e si ribellano,  ancor prima che i proprietari, i progettisti locali, che già mal sopporteranno la semplice introduzione nel marzo 1956 (a fine mandato di Cardelli) di norme comunali che “rendevano obbligatorio il parere preventivo di massima urbanistico ed edilizio per i progetti di trasformazione edilizia e per i piani di lottizzazione, e codificavano le modalità per la presentazione dei progetti stessi” (parole di Astengo), mettendo freno al Far West edilizio. Figurarsi un piano regolatore! E infatti il nuovo sindaco Ardizzone, a capo del successivo monocolore democristiano, si mostrerà più sensibile alle loro ragioni, e non solo alle loro.

Intanto Astengo lavora alacremente, ma interviene l’inattesa, fulminea approvazione della c.d. “legge per Assisi” nell’ottobre 1957, di cui il governo centrista gratifica l’unica città umbra di qualche importanza che abbia voltato le spalle ai temuti socialcomunisti, come si diceva allora. La legge è intitolata significativamente “Provvedimenti per la salvaguardia del carattere storico, monumentale e artistico della città e del territorio di Assisi, nonché per conseguenti opere di interesse igienico e turistico”. Un deciso incoraggiamento alla vocazione turistica? Certo, perché ci sono importanti finanziamenti a fondo perduto per restauri pubblici e privati del patrimonio edilizio. Ma non solo, perché scorrendo fino all’ art. 14 si scopre che “Per consentire il libero sviluppo delle attività artigiane e di quelle industriali senza deturpare il carattere storico e monumentale e il paesaggio della città e del territorio di Assisi, il comune di Assisi, entro due anni dalla presente legge, designerà, d’intesa con la Sovrintendenza ai monumenti dell’Umbria e in armonia con i piani particolareggiati e con il piano territoriale paesistico, le zone dove viene consentito lo sviluppo delle predette attività (…) dal momento della predetta designazione è fatto divieto di istituire ogni nuovo impianto artigiano o industriale in zona diversa”. L’art. 15 fa molto di meglio, garantendo “alle imprese che istituiranno in queste ultime i loro impianti nel periodo di cinque anni dalla presente legge, l’esenzione da ogni imposta erariale provinciale e comunale e relative sovrimposte, per la durata di anni 10 dalla istituzione dell’impianto medesimo”. Mica male! Dato un colpo al cerchio e uno alla botte, si torna al cerchio quando all’art. 16 si dispone che “Per i nuovi impianti alberghieri che saranno creati entro il periodo di cinque anni dalla pubblicazione della presente legge, competerà l’esenzione da ogni imposta e tributo erariale per la durata di anni dieci dalla data di apertura degli impianti medesimi”.

Insomma, l’occasione è storica, ma bisogna fare presto e bene se si vuol provare a salire (gratis, perché a spese dello Stato) sul treno dello sviluppo extraturistico, e quel progetto di Piano urbanistico che pioneristicamente interpreta con rigore la propria missione minaccia di diventare un bell’impiccio. Astengo annusa l’aria, riaggiusta un po’ il tiro, ma al contempo individua gli avversari e cerca alleati, non solo politici. Quanto agli avversari, riferisce “accesi dissensi soprattutto per ciò che concerne la proposta della traversa Osteriola-S. Giovanni di Campiglione, avversata dagli otto consiglieri angiolani, di ogni partito, nel timore che la sua realizzazione possa deviare il traffico dall’attuale statale, ed alcune perplessità sulla progettata strada anulare esterna che passa sotto il Santuario di S. Damiano; per questi motivi, ma fondamentalmente per il timore che l’adozione del piano determinasse la precisazione delle zone industriali, quasi che si sottraesse, in tal modo, ai poteri del Consiglio una facoltà concessa dalla legge speciale, l’adozione fu procrastinata; essa fu infatti rinviata fino alla seduta del 3 marzo ‘58, fino a quando cioè non fosse pronta una nuova proposta sulla determinazione e sulla regolamentazione delle aree industriali, assai più estese e meno vincolate che non nel progetto di piano regolatore”. E altrove, significativamente: “ventinove tecnici locali, ingegneri, architetti, e geometri, si sono schierati violentemente contro i vincoli del piano, sottoscrivendo una comune opposizione”.

Quanto agli alleati, egli racconta solo che “il consiglio direttivo dell’Accademia Properziana del Subasio, composto da medici, professori, maestri e da studiosi dell’O.F.M. ha ufficialmente espresso la sua adesione”. Può non sembrare molto, ma a ben vedere non è poco. È grosso modo il meglio che intellettualmente Assisi (o meglio il capoluogo: Astengo ci ha raccontato la posizione dei consiglieri della vallata) può esprimere, picchi emergenti dell’iceberg di una coscienza collettiva largamente dominata da Fortini e dal suo mito della città sacra e intoccabile. È dunque cosi, accidentalmente e indirettamente, che si realizza la convergenza di fatto tra il sogno (sostanzialmente impossibile) del fascista Fortini e gli scrupoli paesaggistici (ugualmente irrealizzabili nel loro rigore) del socialista Astengo, fra la mistica di una città dal sacro destino e la più moderna sensibilità urbanistica. Sono forse i soli due uomini che, in posizione di responsabilità, abbiano espresso nel secolo trascorso delle visioni complessive, ambiziose e appassionate del futuro di Assisi.

Quali gli esiti? Non ci interessa seguire ora le molte vicissitudini formali e sostanziali del Piano Regolatore, che arriverà a chiudersi compiutamente addirittura solo nel 1972. Basti invece segnalare che l’occasione del piano regolatore permetterà agli assisani del capoluogo di sviluppare e realizzare, per quanto imperfettamente rispetto alle aspettative di alcuni, una precoce sensibilità paesaggistica altrove sconosciuta, figlia legittima di trent’anni di mistica della città eletta. È quindi all’inopinata congiuntura astrale che incrocia i destini di due personalità separate anagraficamente da una generazione e con idee molto differenti che, pur con varie ma non decisive sbavature successive, si deve il paesaggio contemporaneo di Assisi e della sua vallata, oggetto di generale (unanime sarebbe troppo) ammirazione e gratitudine.

Tutto bene quindi? Per apprezzare lo scampato pericolo basterà figurarsi lo scenario alternativo, che non richiede molta immaginazione perché è quello che ha prevalso praticamente ovunque altrove, ed è dunque sotto gli occhi di tutti: a Perugia, Gubbio, Spoleto, Spello le cinte medievali sono annegate (quando hanno resistito) nella brutta edilizia del boom economico e dei suoi epigoni, evidentemente irresistibile in questi luoghi. Nemmeno a dire di Foligno e Città di Castello, centri di pianura e dunque meno difendibili.

Ma a ben vedere sono appunto queste città, e loro sole, ad aver mantenuto l’antica supremazia identitaria su quello che nel medioevo si chiamava il “comitatus”. Sono queste, e loro sole, che ad ogni buona occasione, foss’anche una banale bella serata settembrina, a tutt’oggi si affollano allegramente di residenti dell’intero Comune che si godono la “loro” città, e come tale la amano, la difendono, la criticano e la cambiano.

Assisi capoluogo ha invece peccato di presunzione o distrazione (di ambedue?), convinta di potere tirarsi dietro senza sforzo il proprio territorio mentre si infilava in un sarcofago di vetro. Bello, bellissimo, per carità, ma in definitiva un po’ scomodo e via via sempre più inopinatamente triste. Eppure quando il meccanismo ha cominciato a scricchiolare i segnali premonitori, almeno in politica, ci sono stati. Saltato il tappo del fascismo, già nel 1945 si era costituito un “Comitato esecutivo pro Comune di Santa Maria degli Angeli”, con acceso promotore l’imprenditore Mecatti; abbiamo visto sopra la posizione dei consiglieri angelani (di ogni colore politico) sul piano Astengo; e più avanti verrà anche la “Lista del piano”, poi rientrata. Ma nessuno meglio di noi contemporanei sa che non è stato il piano politico quello decisivo, non ce n’è stato bisogno. Perfezionati i presupposti che abbiamo descritto sopra, le dinamiche socioeconomiche e demografiche che hanno trovato spazio espressivo sono state di tale potenza che tenere tutto insieme, capra e cavoli come di dice, sarebbe stata impresa di grado eroico. Forse non impossibile (benché si faticherà parecchio a trovare in giro un esempio paragonabile di successo), ma certamente superiore alle capacità della classe dirigente che la comunità è stata in grado di esprimere. Altrimenti detto, sarebbe servito un grosso colpo di fortuna. Che non c’è stato.

Scriveva Karl Marx che di buone intenzioni è lastricato l’inferno, ma se un inferno c’è non può davvero somigliare ad Assisi. Meno enfaticamente, ci ritroviamo oggi una città identitariamente in agonia, che somiglia a quel che gli altri vogliono che sia e che ha perso da tempo il controllo del proprio destino; non più soggetto, ma oggetto eterodiretto che sforna a comando simboli e denaro, con un presente fatto di ricordi. Anche il futuro? Fortini e Astengo volevano questo? Certamente no. E noi, che ne pensiamo?

Francesco Lampone

Lavora come responsabile dell’Area Legale e Relazioni Internazionali dell’Università per Stranieri di Perugia. Si occupa occasionalmente, per passione, della storia di Assisi. Ha pubblicato per le edizioni Assisi Mia, in collaborazione con Maria Luisa Pacelli, il volume: Assisi: un viaggio letterario, dove si esplora l’identità cittadina attraverso lo sguardo di cento visitatori illustri.

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