21 Marzo 2024

La memoria è altrove. E la porterò con me

Francesca Tuscano
La memoria è altrove. E la porterò con me

È tornata la primavera, senza che un inverno l’abbia preceduta. Niente neve. Poco freddo. Il pettirosso si ostina ad aspettare il cuculo come se volesse mantenere una tradizione, più che seguire un istinto. Questa primavera nasce senza una ragione. E potrebbe essere così anche per tutte quelle che saranno nel tempo a venire. Il canto degli uccelli, che progettano nidi tra i rami ancora spogli, e la luce velata di un marzo simile a un maggio accompagnano il mio togliere libri e oggetti da mensole e scaffali. Me ne vado da Casacce. Dopo trent’anni lascio la casa di cui conosco ogni pietra e mattone, su queste colline alle spalle di Assisi, nascoste tra l’alba dell’Adriatico e il tramonto del Trasimeno. Una terra invisibile a chi crede che Assisi sia solo quella che pende sulla costa fertile del Subasio, e non sa che alle spalle del Monte, là dove la costa è meno fertile, ma incredibilmente più bella, ci sono boschi, campi, castelletti e piccoli agglomerati di case che sono antichi quanto e più dei paesi arrampicati di fronte alla pianura, che si vantano di una bellezza ormai stanca, che s’imbelletta perché teme di riconoscersi. Lo sono nell’essenza, prima ancora che nella forma. Ciò che la Basilica racchiude sulle sue pareti preziose e irrimediabilmente, finitamente umane, qui è vita che muta, natura, pietre, alberi, canti di uccelli. Silenzio. E s’impara molto da quel silenzio, dalla luce che spalanca le colline verso le montagne di Gubbio e di Gualdo e le conduce alla linea armoniosa di Perugia. S’impara quello che dice anche il silenzio della chiesa enciclopedica che accoglie Francesco, e i suoi affreschi – la bellezza non salva nulla, ma ci perdona di esserci salvati.  

Me ne vado perché mi arrendo – alle strade impraticabili, al lento e inarrestabile spopolamento di queste campagne, alla solitudine che sa di resa di fronte all’indifferenza. Sento che sto tradendo questa terra, questa casa, questo silenzio, e chiedo scusa alle querce, che mi hanno ascoltata nei momenti in cui non avevo che loro. Mi porto via solo ciò che è indispensabile. Gli oggetti non sono ricordi. Sono oggetti. La memoria è altrove. E la porterò con me. Anche in questa sera, nella quale scrivo ascoltando il canto dell’assiolo che pretende la primavera. Nel senso di colpa che accompagna il mio prepararmi a lasciare questi luoghi.

Avevo forse dieci anni. Una domenica di giugno. I miei avevano portato me e i miei fratelli a Casacce, come tutte le domeniche. Avevano un bisogno quasi fisico di tornare ogni settimana alla terra. Nella loro idea di campagna c’era il mito di un’infanzia povera, vissuta nel pieno di una guerra, nella quale la natura era stata garanzia di sopravvivenza. La terra merita cura e rispetto perché è generosa come gli uomini non sanno essere – questo pensavano, e lo dicevano a noi bambini. Ed è riconoscente – se la ami, ti restituisce quell’amore sotto forma di vita. Il campo di grano era enorme. Ci entrammo con la paura che accompagna la libertà. Cominciammo a correre. Ci perdemmo. Tutto era grano, ovunque. Non riuscivamo a uscirne. Più correvamo, più il grano diventava alto, una presenza ossessiva che confondeva la percezione dello spazio. Infine, le voci degli adulti, vicino alle case, ci indicarono la direzione dell’uscita, e quando ci ritrovammo sulla ghiaia della strada, sentii che le gambe tremavano ancora di più. Uscire dal labirinto non significa uscire dalla paura del labirinto. Al contrario – è l’esperienza del perdersi che ti rende cosciente della sua possibilità, com’è di ogni esperienza. Un’ovvietà alla quale, colpevolmente, non si vuole pensare. Neanche da bambini.

In realtà, il campo non era così enorme. Eravamo noi ad essere piccoli. Un adulto non ci si sarebbe perso mai. Casacce iniziava a sedurmi con una prima verità. Vivere nella natura prevede continui calcoli di proporzioni. Ogni prospettiva comprende un’altezza dalla quale calcolarla, e i punti di riferimento te li devi cercare, adattandoti, con l’umiltà di chi riconosce di essere una parte qualsiasi di un tutto che ci prescinde, mentre ci circonda. Quella domenica di giugno capii che era lì che avrei voluto vivere, un giorno. Vicino a quel campo di grano.

Francesca Tuscano

Francesca Tuscano laureata in Russo, Italianistica e Lingua e Cultura Italiana. Ha scritto di letteratura, teatro, cinema e musica russi. Lavora come catalogatrice di fondi musicali, traduttrice dal russo, librettista.

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