31 Marzo 2024

La quercia e il sorbo

Francesca Tuscano
La quercia e il sorbo

In russo, quercia è di genere maschile e sorbo femminile. C’è una tristissima canzone popolare che imparai quando studiavo in una Mosca ancora sovietica, e che mi canto a ogni solitudine, a ogni distacco. Un sorbo è innamorato di una quercia. Un fiume li separa. Snello, come una fanciulla, il sorbo si piega per raggiungere con i suoi rami la quercia. Ma è impossibile. Esiste una solitudine che siamo costretti a vivere, inesorabilmente. È quella che sta nel destino di chi è diviso dal destino. I due alberi si guardano, di là dal fiume, mentre il sorbo non smette di piegarsi. Lo farà per sempre.  L’amore non accetta l’inevitabile. Non può smettere di desiderare. E il desiderio è una forma di speranza che non prevede di piegarsi al destino.

Davanti alla finestra del mio studiolo c’è lei (lui) – la quercia alla quale ho sempre detto tutto di me. Anche (e soprattutto) ciò che non potevo o volevo dire a un umano. Mentre scelgo i libri che porterò via con me (Bassani, l’edizione ormai distrutta di Pinocchio che leggevo da bambina, Flaiano, Ripellino, Landolfi, Sciascia, Joyce Lussu, Petrarca …), la guardo e le sorrido. Non voglio essere triste. Non voglio che lo sia lei. L’amicizia non si accontenta dell’inevitabile. Lei lo sa che quando le parole non esistono più, rimangono i ricordi.

La memoria può cancellare il tempo – quando è successo? Era giorno o notte? E in quale stagione? Non ricordo se fosse primavera o inverno quando mio padre e mia madre dissero a noi figli appena adolescenti di fare una scelta importante – dove comprare una casa e un orto, a Porziano o a Casacce? Dove avere una campagna tutta nostra? Già, perché i miei non chiamavano Montagna quell’andare di colline che partono dalla costa del Subasio alle spalle di Assisi, per arrivare ai confini dei monti di Gualdo. La chiamavano campagna. Avevano una percezione diversa del paesaggio, rispetto agli assisani. La natura più rude di quegli spazi, per chi veniva da un paesino confuso con la roccia alle falde dell’Aspromonte, non giustificava l’appellativo di Montagna. Le colline che si susseguono con dolcezza dietro il Subasio, rotondo come la pancia di una donna incinta o di un uomo felice, per i miei non avevano nulla della loro Montagna fatta di burroni e boschi dove ci si perde. Ma per noi ragazzi, che pure conoscevamo bene la Montagna dove andavamo ogni estate, spalancata sul mare, quella campagna poteva avere il fascino della natura che accetta l’uomo come compagno ma non come padrone. E se Porziano era pur sempre un paesino, chiuso nei limiti dell’antico castello, con il suo minuscolo emporio e la sua chiesetta, Casacce era campi e boschi. Sì, certo, c’erano anche le case, e addirittura una minuscola tabaccheria, dove la domenica si ritrovavano uomini vecchi e giovani a chiacchierare, fumare e bersi un bicchiere di vino prima di iniziare a giocare con le bocce di pietra, verdi e rosse, lungo la salita della strada di ghiaia che porta a San Presto. Ma non era un paese. Era case che si confondevano con gli alberi e il grano. La scelta fu semplice. Casacce diventò la nostra seconda casa assai prima che per me diventasse la prima. Nel bosco ai piedi della vigna che mio padre piantò non appena riuscì a comprare altra terra, capii per la prima volta che il rumore dell’acqua che scorre nei fossi, e la luce del pomeriggio tra le foglie, sono la nostra prima lingua. La retorica romantica che avevo conosciuto sui libri lì appariva in tutta la sua pochezza. Non c’è nulla di retorico nella vera bellezza. C’è solo il senso di chi parla senza usare parole. Che ti costringe ad ascoltare il tuo respiro. La vita è ritmo e silenzio. Accettare che ogni perdita è un inizio. Senza nulla di eroico o compiaciuto. La foglia marcisce dove rinasce perché dev’essere così. L’esistenza è un cerchio che ci prescinde. Ed è una grazia percepire l’ovvietà di quel cerchio. La sua naturalità.

Guardo la quercia, e so che lei capirà anche questa volta. Non smetterò di pensarla, ogni giorno, come il sorbo. Anche quando me ne andrò a vivere dove la campagna sopravvive a un uomo che non le è compagno. Ormai so.

Francesca Tuscano

Francesca Tuscano laureata in Russo, Italianistica e Lingua e Cultura Italiana. Ha scritto di letteratura, teatro, cinema e musica russi. Lavora come catalogatrice di fondi musicali, traduttrice dal russo, librettista.

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