25 Aprile 2024

Vorrei sognarmi. Invece vivo

Francesca Tuscano
Vorrei sognarmi. Invece vivo

Accumulo oggetti sul tavolo della cucina. Non mi seguiranno quando me ne andrò. Li regalerò, li venderò. Darò loro la possibilità di essere utili una seconda volta. La do a loro e la do a me stessa. Darsi e dare possibilità, lungo la strada di cui ignoriamo inizio e fine. Una cosa che ci obblighiamo a non pensare, nell’ostinata presunzione di ignorare la nostra finitezza, che, pure, è la grazia e la bellezza che ci ha concesso la natura. Ciò che potrebbe renderci umani, se non avessimo paura di vivere, più che di morire. Poi, però, guardo i muri di pietra, l’alloro dietro la finestra, e non ho più certezze. Vorrei sognarmi. E invece vivo.

Sul letto, dalla parte dell’amore, ho messo le Satire di Orazio. Mio padre nobilitava le nostre frequentazioni campagnole citando lui e Virgilio. I protetti di Mecenate che non avevano voglia di starsene in società ed esaltavano la solitudine tra i campi. Eppure, credo che neanche in campagna fossero sereni. E anche che esiste pure nei veri poeti una retorica dell’esilio, una superbia dell’umiltà, l’esaltazione della fuga dalle proprie paure. Perché i poeti sono pur sempre uomini. Scegliere la campagna da cittadini, alla ricerca di una pace che non può dare nessun luogo. Questa forse era stata la sorte di Virgilio ed Orazio. Ma a noi non era successo, malgrado l’amore di mio padre per i poeti protetti da Augusto e la loro retorica. Perché in campagna noi ci andavamo per lavorare davvero, all’orto, continuando la tradizione dei nonni, contadini per mestiere o per necessità (il padre di mia madre, calzolaio antifascista, era stato costretto ad abbandonare il suo mestiere, e si era messo a coltivare un pezzo di terra vicino alla fiumara, aiutato da un manuale di agricoltura).

Quando i miei dissero a me e a mio fratello Fausto che a Casacce si vendeva una casa da ristrutturare, e che avevano pensato di prenderla per noi, ne fummo felici. L’idea di vivere in campagna era ormai naturale. E quella casa ci aveva chiamato a sé da tempo. Fu allora che ce lo dicemmo, io e mio fratello. Entrambi, senza farne parola, avevamo pensato che un giorno ci avremmo abitato dietro quelle finestre abbandonate che guardavamo ogni volta che ci passavamo sotto. Pare che certe case scelgano i propri abitanti. Che li seducano, attraendoli a sé. E ci convincemmo che fosse capitato anche a noi. Quando iniziammo a ristrutturare quel casale dai solai sfondati, decidemmo che avremmo lavorato insieme ai muratori, togliendo e rimettendo al posto originario ogni mattone, ogni pietra. Fotografammo particolari delle stanze, pavimenti, pareti, facciata. Conservammo frammenti d’intonaco per riprodurne il colore (il rosa, l’azzurro). I cambiamenti necessari li pensammo in modo tale che non violassero il ritmo che la casa già possedeva. Quando vi dormimmo la prima volta, io mi sentii male. La stessa nausea che mi prendeva prima di fare un esame. Mi meritavo di essere stata scelta? Entravo in quella casa con il dovuto rispetto? Ma era stata proprio la casa a rafforzarmi nell’umiltà che mi aveva già insegnato l’uso della zappa. Capire che non è strano bersi un bicchiere di vino alle nove del mattino, mentre fai colazione dopo aver lavorato già un paio d’ore, obbedire al capomastro che ti spiega la bellezza della pietra che s’incastra con la pietra, del mattone che disegna imprecisi labirinti e vie diritte sui pavimenti, della trave che sostiene e crea strutture – tutto questo appartiene all’umiltà. Un giorno me lo sarei tatuato sul braccio destro – shoshin, l’atteggiamento del discepolo che non smette mai d’imparare, anche, e soprattutto, quando sembra aver raggiunto il maestro.

Guardo la finestrella ad arco che volevo più larga, e il capomastro mi disse di no, perché si sarebbe indebolito il muro, facendolo con il sorriso del maestro che perdona la stupidità di un discepolo che pretende di dare la soluzione a un problema che ancora ignora. La guardo e la trovo perfetta. La bellezza è veramente tale quando possiede un senso. Quando nasce dall’equilibrio tra l’inutilità e la sensatezza. Questo Orazio e Virgilio lo sapevano di sicuro. Forse per questo preferivano la campagna a Roma, malgrado la retorica della fuga. La bellezza dei campi, che ignora il profitto garantendo la vita, li salvava dall’obbligo di produrre la bellezza apparente della parola. Obbligo dal quale non si sfuggiva a corte.

Quando me ne andrò, chiederò scusa alla mia casa portando via, come ultima cosa, le Satire di Orazio. 

Francesca Tuscano

Francesca Tuscano laureata in Russo, Italianistica e Lingua e Cultura Italiana. Ha scritto di letteratura, teatro, cinema e musica russi. Lavora come catalogatrice di fondi musicali, traduttrice dal russo, librettista.

Seguici

www.assisimia.it si avvale dell'utilizzo di alcuni cookie per offrirti un'esperienza di navigazione migliore se vuoi saperne di più clicca qui [cliccando fuori da questo banner acconsenti all'uso dei cookie]