Fino alla metà del secolo scorso il regolamento ufficiale non contemplava sostituzioni durante una partita di calcio. Chi subiva un infortunio pascolava lungo la fascia laterale più prossima resistendo stoicamente in campo, purché in grado di mantenere, ancorché vacillante, una parvenza di stazione eretta. Il malcapitato a volte però poteva riuscire, trascurato dagli avversari, addirittura a marcare astutamente una rete che gli annali del calcio d’antan descrivono icasticamente come gol dello zoppo.
Il calcio di strada seguiva regole eterodosse, e lo “zoppo” (definizione politicamente scorretta per la sensibilità odierna, e intendendosi per tale con una sorta di sineddoche il claudicante quanto l’ingessato al braccio), sia a termine che permanente, poteva ambire ad un posto in squadra sin dal primo minuto, unico dato temporalmente certo delle partite di strada: il fischio finale coincideva col crepuscolo, o con i minacciosi richiami delle mamme alla finestra (“Vien su che t’appiccico dal muro!”), con il brontolìo dello stomaco e talvolta con uno stentoreo “chi fa questo ha vinto”, valido solo se pronunciato da autorevoli esponenti della fazione in vantaggio.
Certo, chi “capava” difficilmente avrebbe scelto lo zoppo per primo, o per secondo; poteva però preferirlo con sottile ma evidente perfidia al presuntuoso di turno, ridimensionandolo irrimediabilmente, e non sono mancati casi di scelte di mera generosità (c’era e c’è ancora nel cuore dei ragazzi) a includere il piccoletto, l’occhialuto, quello “che viene da fori” o, sublime esempio di ecumenismo applicato al calcio, quello de San Pietro ovvero, mutatis mutandis, de Piazza Nova. Insomma, ognuno è zoppo in qualcosa: e inquadrata così la faccenda, la definizione non sembra nemmeno più tanto politicamente scorretta!