”Omo!”. Rantolato con l’ultimo alito di fiato per segnalare l’approssimarsi dell’avversario… Un grido di terra, quella dell’ineluttabile “Anabasi” del “partire da lì e del tornare lì”, e in cui spesso annegavano le caviglie sotto acquazzoni che non impedivano di abbandonarsi al divertimento inspiegato del correre insieme dietro a una palla. In quei momenti la memoria sembra non esistere più e si torna a essere “uomo” primario, senza troppe cose appiccicate, o magari in sensi diversi: per iniziare umile Antropos… E di seguito roba più seria: Anèr, Vir… ben altra categoria… e poi via via ancora più su… chissà… un semidio… almeno per una mezz’oretta. Può capitare, anche sul duro lastricato di una piazzetta cittadina o nel buio di un vicoletto. Nelle angustie da battimuro di quei vicoli si assisteva a vere e proprie iniziazioni, “basalità” ineguagliate della gerarchia calcistica paesana nella dinamica antropologica del ”più grandicello e del piccolino”, ovvero del vessatore e del vessato. Teneri virgulti venivano posti eretti e immobili ai due lati del vicolo a fare: nemmeno la palla! Bensì i Pali! E per di più, una volta colpiti dovevano urlare “Palo”! Iniziando così capisci cosa ti aspetta nel prosieguo. Ovvero: calcio di strada come scuola di vita. Eppure, anche in questa visione, qualche compaesano potrebbe vedere una grande poesia, scorgere in un bianco e nero un po’ sfocato e appena rallentato in “slow motion” nelle penombra del fine pomeriggio qualche sagoma familiare e antica, e udire il bimbo che esclama “palo!”, sicuro di fare la cosa giusta. Chissà, un po’ di commozione che sale su, inaspettata, fino in gola, potrebbe anche distillare una piccola lacrima, una sola. Che ci volete fare? Andando avanti ineluttabilmente, tutti insieme, si rimpiange un po’ tutto.