Tutto lo scibile è dentro la cosmografia assisana mappata ad est da Ramaccia con la via che apre al prete Gianni, ercoline a ponente le colonne di cipressi nel cimiteriale, guardinga dall’alto l’ultima thule albornoziana, mentre al limite del deserto le fiere del portone di San Pietro recitano: “hic sunt leones”. Poi novelli Colombo aprono la rotta e allora il restare perde il suo incanto, la summa tra le otto porte. Ci si accorge di altro che c’è altrove e più ancor di ciò che non c’è qui.
Evitando la pur giusta ma ormai dilaniata polemica sulle mancanze che offre Assisi, è necessario affermare che al restare spetta una foggia ideologica e utopistica tanto quella, diametralmente opposta, dell’oblomovismo dei giovani assisani. Però non è che ci si ferma ad Assisi perché non si hanno velleità lavorative: quelle la città da sempre non ne ha mai date troppe. Assisi per antonomasia è il posto dell’immobilità feriale, della poca domanda e della nessuna risposta. Ma non è questo, si resta ad Assisi per antropologia, dato che si vorrebbe continuare a mettere i costumi di una storia, anche recente, che ha avuto le sue pienezze generazionali provando anacronisticamente ad imitarle. L’erosione dell’acqua santa sta finendo la roccia dove ancora galleggiamo. Chi resta qui trova la ragione quando, di soppiatto, guarda dal monte una vecchia ragazza che all’ora della sera diventa rosa per la timidezza così da far godere “anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza”. Direbbe Gaber: qualcuno è restato perché era troppo stanco, qualcuno è restato perché credeva di avere dietro a sé l’amministrazione comunale, qualcuno perché la piscina oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente, qualcuno perché ha visto I basilischi della Wertmuller e vive, sopravvive, in un’eterna controra.
Thank You – Led Zeppelin