Tutto era regolato dal suono dei campanelli. Che non solo ti ricordava l’esistenza del tempo e del suo scorrere, ma decideva le tue azioni. Ti diceva che il tempo, come la luce, anche quando non ci pensavi, si diffondeva in tutte le direzioni. Il trillo, prolungato per sicurezza, ti faceva sapere che era l’ora di…
Il più atteso, anche se non da tutti, per motivi che si capiranno dopo, era quello che chiamava alla mensa.
Erano 3 / 4 i suoni della convivialità. Il primo comune dopo le abluzioni mattutine; per il pranzo ce n’erano due, a distanza di circa un’ora dai più piccoli ai più grandi, uno soltanto per la cena. Nei festivi ci si alimentava tutti insieme, senza distinzioni. Perché non ricordare che la conversazione tra commensali si avviava preceduta da un campanello?
Erano le regole dell’istituto, quelle che contribuivano a darti un’educazione. Come lo studio e l’esercizio del rispetto verso gli altri. Il consumo del cibo accomunava padani e peloritani, li istradava all’accettazione di un sapore che non era più quello materno, ma quello delle pietanze neutre, dal gusto ostico perché diverso. Il più difficile da accettare era il pane. Pane senza sale che né calabresi, né emiliani o veneti erano abituati a spezzare e masticare a casa loro. Diventava ‘scristianamente’ il simbolo del rifiuto. Non accettare il pane sciocco, magari estendendo la rinuncia agli altri piatti, significava rifiutare più o meno apertamente lo stato di convittore, sofferto ma necessario.
E allora quando suonava la campanella del refettorio l’animo si divideva in due: la fame, prerogativa di quell’età, combatteva strenuamente con l’inclinazione al rifiuto e, se le provviste sapide del pacco domestico erano terminate, l’appetito vinceva. E diventava accettabile anche il pane sciapo. E il convitto.
Brevi note etimologiche a cura di Carla Gambacorta
Mensa è voce dotta (come dimostra la conservazione del nesso –ns– che nelle parole di tradizione popolare di riduce invece a semplice –s-), risalente infatti al latino mensa. In origine significava ‘tavola’ (forse dal nome di un dolce sacro che lì veniva posto), e quindi estensivamente il cibo stesso. Tra le varie accezioni, assunse anche quella di ‘organizzazione che prepara i pasti per un determinato gruppo di persone’.
Suggerimento musicale a cura di Franco Rossetti e Claudia Rossetti
Dalla colonna sonora della trasposizione televisiva del celebre “Giornalino di Gian Burrasca”, di Luigi Bertelli, meglio noto con lo pseudonimo di Vamba (dal nome di un buffone di corte in un noto romanzo storico); testo di Lina Wertmüller, musiche di Nino Rota. Parla di un tipico piatto povero di riciclaggio della cucina toscana.
La pappa col pomodoro – Rita Pavone, 1965