Al manifestarsi esteriore il calcio di strada è cosa maschile: rare le giocatrici; quando ce n’è una si dice: «Quella è un maschiaccio!». Le coetanee dei giocatori, se più tendenti all’infanzia, fanno altri giochi o esercitano il gusto nella fattura di braccialetti; se già scaltrite in senso adolescenziale, passeggiano lanciando sguardi ai più grandi. Perciò non si pensa mai debitamente al ruolo, in questo gioco, della donna per eccellenza, la mamma.
Ella tuttavia viene a conoscere meglio del papà l’andamento dei match e offre di frequente consigli al piccolo campione e più ancora alla piccola schiappa, sebbene su aspetti di contesto e non sugli stili di tiro o i modi per allenarsi. La mamma pulisce e disinfetta le inevitabili ferite e frattanto cerca di capire la dinamica dell’incidente, esortando a una maggiore attenzione, forse spingendosi a suggerire un terreno di gioco più sicuro. Se l’escoriazione è conseguenza di spintone/spallata/sgambetto, l’avvertenza si colora di tratti sociali, perché l’invito sarà di evitare partite in cui giochi l’energumeno o l’infido oppure sarà – dipende dal tipo di mamma – di parlarne, porre il problema in seno agli amici, per bandire o far rinsavire il falloso. Discorsi tali maturano anche da un’altrettanto inevitabile cura della mamma: il rammendo di maglie e pantaloncini. Sempre lei cuce eventuali distintivi o ripassa al ferro da stiro il nome del figlio, se il team è superorganizzato; a lei il ragazzo chiede licenza di usare certe scarpe per la partita, perché le più vecchie, inadattissime, fanno scivolare.
Ma anche quando il giocatore, un giorno in cui i suoi lo sanno a studiare, si prende una brutta storta e deve dissimularla, è la mamma a scoprire, da minimi inconsueti movimenti del pargolo, che c’è stata una partita di troppo.