06 Ottobre 2021

Harakiri

Mattia Della Bina Elisei
Harakiri

Ai giorni nostri il senso figurativo del termine ha assunto una nota canzonatoria: si fa “Harakiri” quando si procura a sé stessi un grave danno, per semplice sconsideratezza o temerarietà. Neanche un gesto drammatico come questo, figlio di disciplina e senso del dovere portati al limite, è riuscito a mantenere la propria superficie al riparo dalle corrosioni del tempo e della storia delle culture che avanza.
Guardiamo a questa nostra bianca città: difficilmente potremmo accostare un gesto come quello dei Samurai alla sua lenta -e inesorabile- decadenza.
Spostando la lente su chi vi abita dentro, diremmo che la possibilità di fare Harakiri è stata eclissata dal venefico nettare del quotidiano. Non si vede, in Assisi, lo scintillio delle spade che rapide prendono la vita dall’addome di chi le impugna. Né alti ideali incompiuti sui quali altari sacrificare sé stessi.
Si può scorgere, bensì, una processione digestiva: la trappola di questa bellissima città. Assisi è la dolce culla dei nostri dolori e la voce dimenticata di una coscienza, via via più debole; è la matrigna che rinfaccia i fallimenti mentre con la mano indica un nuovo, identico e salvifico giorno per sperare di rifarsi sapendo già che non accadrà un bel niente.
Qualcuno ha detto “Follia è fare e rifare la stessa cazzo di cosa, ancora e poi ancora, sperando che qualcosa cambi”.
Si può morire così, seguendo i propri principi nelle piroette del dado di indefinite facce che formano una vita. Da una prospettiva nobile e non per questo irrealistica, usare le stesse mani con le quali si sono plasmati i sogni per ridurre in cenere il loro divenire realtà è parte di un processo di creazione proattivo che non possiamo anticipare in ogni suo mutamento, ma che vive, è teso all’evoluzione.
Quale linfa sgorga appassendo lentamente?

Brevi note etimologiche a cura di Carla Gambacorta

Harakiri ‘suicidio compiuto mediante il taglio del ventre con una spada’, tipico dei samurai, è naturalmente voce giapponese, formata da hara ‘ventre’ e kiru ‘tagliare’, diffusasi in Occidente nei primi del Novecento durante la guerra russo-giapponese. Dalla forma assimilata karakiri (così già in D’Annunzio) si è avuta la grafia italiana carachiri.

Suggerimento musicale a cura di Filippo Comparozzi

La ballata del Miché appare semplicemente come una storia di delitto d’amore. Ricorda La ballata dell’amore cieco in tal senso, perché descrive un amore in modo macabro. Miché finisce in carcere per aver ucciso “chi voleva rubargli Marì“.

La ballata del MichèFabrizio de André

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