29 Aprile 2024

Ritorno da Katmandu

Francesco Berni
Ritorno da Katmandu

La mia vicina di casa è la signora Anna.
Sola, vive nell’appartamento sotto al mio. Muove sedie in piena notte.
Non è un trasloco. Forse è la necessità di esserci marcando lo spazio a prescindere dal tempo.
Anna ha perso tutto. Suo figlio di 24 anni se ne andato e poi il marito ha seguito la sua strada.
Ripete sempre la parola ‘nani’ quando mi vede, un modo tipicamente reggiano per salutare con dolcezza i bimbi.
È una signora gentile Anna che tiene in sé una forza nascosta dalla sua fragile postura segnata dal tempo e dalla vita.
Le porto dei fiori. Suono. Il pianerottolo è angusto amplificando la voglia di allargare la visuale. Anna apre, sembra sorpresa.
Mi accoglie, non capisce. Le lascio i tulipani bianchi. La prima cosa che pensa è suo figlio. Domani gli porterà i fiori per abbellire la sua casa.

La vita è sofferenza.
Il speranza è il suo nutrimento.
Maggior benessere economico, forti progressi scientifici, malattie curabili, la vita si allunga. Crediamo meno perché abbiamo meno bisogno. Ma nelle società arcaiche la sofferenza era diffusa.
Ada, mia nonna materna, perse un fratello a 17 anni per una malattia oggi assolutamente curabile. Sua madre Maria fu segnata da questo evento da cui non si riprese più completamente.

L’altro fratello Mandino venne arruolato sl fronte. Prigioniero nella disfatta africana, passo molto anni in Scozia ai lavori forzati per tornare irriconoscibile in Italia.
La salute compromessa contribuì alla sua fine successiva.
Storie di famiglie come tante di ieri e di oggi che ci ricordano come sia importante la spiritualità e le religioni nell’alleviare i macigni della vita e dare speranza.

L’oppio a volte serve.
In Anna vedo mia nonna.
Un sentimento di compassione e rispetto mi pervade quando incrocio la sua minuta presenza tra le scale di casa.
Una sensazione assimilabile all’idea di reincarnazione orientale che percepisco più nella sua forma pratica che nella sua assolutezza. Non credo in questo concetto in sé quanto nel suo risvolto materiale che mi aiuta a vivere con gli altri in armonia.

La stessa cosa mi succede spesso anche nei viaggi.

Tra le montagne nepalesi ad esempio, dove il verde prepotente della vegetazione è interrotto da lingue di terra coltivata strappata faticosamente alla selva.

Il paesaggio dominato da alture imponenti in cui il ghiaccio si confonde con le nuvole è punteggiato da modeste casupole di mattoni e precarie coperture in lamiera. Qui molte famiglie di contadini passano la giornata tra i campi a coltivare patate, granturco e ortaggi. Armati di ampie ceste sulla schiena prive di spallacci come i nostri zaini, si inerpicano come stambecchi tra i boschi impervi per raccogliere la legna lasciata tagliata nel bosco ad essiccarsi.

Tra sali e scendi continui incontro una coppia di anziani contadini.

Lei sorride composta. Ha un bel vestito colorato e un’acconciatura finemente decorata. Lui sta intrecciando canne di bambù per fare una cesta. Mi accoglie con una fragorosa risata amplificata dal carattere intermittente della sua dentatura.
Gli prendo le mani e sorrido togliendomi il cappello in segno di rispetto.

Non parlano inglese. Proviamo con i gesti. Mi spiega come intreccia il bambù mostrandomi la tecnica di taglio.
Un gesto ancestrale che rivela saperi antichi perfezionati come un mantra nella loro ripetizione quotidiana.
Mi accolgono in casa. Mi fanno sedere offrendomi un chai. Vivono in uno stanzone unico con al centro un tavolo accanto ad un timido focolare e posizionati agli esatti estremi i rispettivi letti. Lei quasi adiacente alla porta di ingresso. Lui incastonato tra la credenza e le foto di famiglia dall’altra parte della stanza.
Mi cuoce una patata appena raccolta. Non hanno altro. Accetto. Per ringraziarli gli regalo un disegno della valle accanto. Riconoscono subito il posto. Incredibile. Lui è contento esce a mostrarlo ad un amico. Rientra e lo appende ad una trave passandoci prima l’amido preso da una patata fresca appena tagliata.

Mi mostrano le foto. I colori sono sfuocati, la carta ingiallita, a stento si riconoscono dei volti. Hanno due figli grandi. Lavorano fuori a Kathmandu. Sembrano orgogliosi.
Li guardo con affetto e tenerezza. Sono bellissimi nella loro unica semplicità. Ci rivedo i miei nonni anche qui in una sorta di reincarnazione laica.

Provo serenità e bellezza.
Penso a Pasolini.
Ci stringiamo in un abbraccio senza tempo.

Namaste.

Francesco Berni

Urbanista. Consulente del Comune di Milano per progetti di rigenerazione urbana e innovazione sociale. Ho lavorato per enti pubblici e privati nel campo della progettazione e pianificazione urbanistica. Svolgo attività di studio e ricerca presso il Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università degli Studi di Firenze su temi legati alla rigenerazione urbana, innovazione sociale e disegno della città. Appena posso però me ne torno tra i vicoli di Assisi.

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