Connaught Place.
Una distesa circolare di edifici color panna connessi da grandi portici.
La Delhi coloniale si presenta così: bianca, senza mai esserlo troppo.
I colonnati dei “crescent” inglesi, con il loro sapore neoclassico europeo, assumono qui un tono diverso, segnati dal fluire del tempo che in India tutto leviga e smussa.
È un angolo della città che invita al passeggio, lontano dalla minacciosa commistione di mezzi di trasporto che altrove ti travolge.
Sui grandi marciapiedi ornati da alberi, è possibile camminare in relativa pace, ma l’attenzione non deve mai calare: ci sono buche imprevedibili, cani randagi che vagano sereni e orde di negozianti e driver pronti ad appiccicarsi come mosche. In India, anche una semplice camminata è un esercizio faticoso, un continuo contrattare il proprio spazio.
Le forme di Nuova Delhi hanno poco a che fare con l’India autentica; raccontano piuttosto la memoria dell’occupazione britannica.
Ma è una memoria ormai digerita, integrata e sbiadita, senza rivendicazioni o nostalgia.
Questo passato non è più un peso, ma un dettaglio che convive con il caos moderno della metropoli.
Sono arrivato all’aeroporto con sandali, ancora immerso nel caldo umido del meridione.
A Delhi, però, l’inverno è rigido, e il freddo mi coglie impreparato. Mi cambio velocemente: piumino, jeans e felpa. Quando esco, l’aria pungente mi sorprende in positivo.
Una giornata fredda e soleggiata, che ricorda la primavera italiana.
Respiro profondamente: la mia pelle, sollecitata dall’aria frizzante, sembra risvegliarsi dal torpore estivo. “Mi mancava l’inverno”, penso.
Il freddo ti spinge a rallentare, a riflettere, a cercare rifugio e protezione.
Intorno a me, però, gli indiani sembrano soffrire terribilmente il clima.
Sono tutti imbacuccati come fossimo in Siberia, specialmente i poveri guidatori di tuk-tuk, esposti ai venti gelidi della strada.
Camminando con Giulia, rifletto su quanto questa parte di Delhi sia piacevole. Connaught Place, con i suoi portici e le sue geometrie coloniali, è un mondo a parte rispetto alla mia prima esperienza nella capitale. Quando arrivai qui per la prima volta, fu uno shock culturale.
Alloggiavo vicino alla stazione, ai margini della città vecchia, in un quartiere caotico e oppressivo.
L’hotel era una torre in mattoni, alta e stretta, quasi in bilico, con stanze buie e sudice. Intorno, le strade erano piene di rifiuti, impregnate di odori nauseabondi.
Oggi la situazione è diversa.
Dopo aver mangiato un uttapam con cipolla e pomodoro, io e Giulia ci dirigiamo verso un incontro con la direttrice di una nota fondazione d’arte contemporanea.
Ci interessa capire cosa si muove nel panorama artistico indiano. Ci accoglie con gentilezza, ma le opere non ci colpiscono particolarmente.
Questa sensazione l’ho avuta anche a Mumbai, visitando alcune gallerie: le opere non sono memorabili, ma ciò che mi affascina è il fermento, la voglia di cambiamento che si respira attorno all’arte.
Mentre Giulia discute con la direttrice, mi trovo a riflettere sulla nostra autoreferenziale ignoranza europea. Siamo ancora convinti di essere il centro del mondo, ma le cose stanno cambiando. Sappiamo poco della storia dell’arte contemporanea del sud-est asiatico, una regione che in futuro avrà un ruolo centrale.
La direttrice ci racconta di come l’arte stia crescendo in tutta la regione, tra Pakistan, India, Sri Lanka e Bangladesh.
Non esistono più scuole o movimenti artistici locali, ma singoli artisti che collaborano in progetti specifici.
Le grandi città come Delhi e Mumbai sono i poli principali, ma anche altre realtà, come Cochin in Kerala, ospitano eventi significativi, come la Biennale d’Arte.
L’India moderna ha prodotto artisti importanti, dalla Scuola del Bengala, con Abanindranath Tagore, fino ai Progressive Artists Group di Mumbai, con il visionario Maqbool Fida Husain. Ma tra tutti, l’artista che mi affascina di più è Amrita Sher-Gil, una pittrice di origini indiane e ungheresi, morta a soli 28 anni.
Le sue tele raccontano con compassione e intensità la quotidianità del popolo indiano, trasmettendo un amore profondo per la sua terra. Ed è proprio guardando a questa storia, che rifletto su come l’arte spesso anticipi molte tendenze. La scena artistica contemporanea dell’India è un’ulteriore conferma di una convinzione che ho maturato in questo viaggio: la consapevolezza che ci stiamo muovendo verso un assetto globale policentrico in cui l’Europa e l’Occidente non dettano più la linea.