La nostra Europa è una terra di città impregnata da una forte cultura urbana.
Aspetto di cui ho preso piena consapevolezza viaggiando in Oriente tra le sgangherate ‘città porto’ del Borneo collegate da aerei e imbarcazioni. Le ‘città zattera’ australiane divise da enormi distanze dove la cultura urbana si concentra in una manciata di città ai bordi del continente. La ‘città lineare’ tra i porti di Keelung e Kaohsiung che spacca in due l’isola di Taiwan in una sorta di Yin e Yang geografico tra le protettive montagne e l’affaccio verso il mare cinese.
Per il grande poeta e scrittore indiano Rabindranath Tagore (1861 – 1941), la nostra ‘urbanità’ europea è diventata nel tempo un’attitudine mentale nel recintare, isolare e proteggere non solo lo spazio fisico.
Può sembrare a tratti una lettura deterministica quella di Tagore ma che porta a chiedersi: perimetrare il proprio spazio urbano e isolarsi dal resto può alimentare il desiderio di possesso spingendo a percepire la natura come altro?
Una domanda lecita che mi fa pensare ai nostri paesaggi ansiosi, quasi iper progettati tra geometrie di filari alberati, rettangoli agrari e aree boschive cesellate.
Tra le strade di Bangalore a bordo di un tuk tuk, rifletto su questo punto, provando a capire, di rimbalzo, come siano in fondo le città in India. Da subito ho l’impressione di un grande mosaico plurale. In effetti forse dovrei parlare di ‘indie’. Agli estremi del paese si affacciano il fiero Punjab, terra dei Sikh e il colto Bengala patria di illustri scrittori, poeti e registi come lo stesso Tagore. Lingua e cultura differente ma destino comune legato alla loro partizione con il Pakistan. In basso, il profondo Tamil Nadu con la sua antichissima lingua, a sinistra il Gujarat legato alla valle dell’Indo che ha dato i natali al grande Mahatma Gandhi e all’attuale presidente turbo-nazionalista Narendra Modi.
È proprio così, il vasto territorio indiano mostra un alfabeto elefantiaco non solo linguistico ma anche spaziale. Un lungo racconto nel tempo fatto dalla commistione tra luoghi spontanei e pianificati. Prima di tutto, la parola ‘città’ in sanscrito si dice ‘negari’ नगरी mentre nella lingua tamil ‘nakaram’ நகரம்.
Percorrendo gli stati del Maharashtra e dell’Uttar Pradesh, le tracce urbane più imponenti sono state lasciate dai Moghul intorno alla seconda metà del seicento. Si tratta di una grande eredità con luoghi monumentali dalle forme astratte che sembrano quasi marchiare a fuoco il suolo che li ospita. Una grammatica fatta da ortogonalità, simmetria e gerarchia.
La spontaneità è lasciata alle casupole semplici e malmesse quasi accatastate una con l’altra lungo le strade principali.
Al contrario, la presenza inglese con la sua distaccata architettura coloniale intrisa di neoclassicismo, si concentra nelle grandi città come Delhi, Mumbai e Calcutta. La rotondità dei crescent che disegnano spazi colonnati di un bianco sporco pieni di vita e commerci come formicai impazziti. Ma anche i grandi spazi pubblici come la bellissima passeggiata lungo Marina Drive a Mumbai e l’Oval Maidan che danno ossigeno alla congestionata e trafficatissima metropoli indiana.
L’India democratica ha lasciato forse uno degli esperimenti più interessanti di città del razionalismo moderno come segno della nuova indipendenza ottenuta da Gandhi e Nehru ma anche il sacrificio della scissione con il Pakistan. Si tratta della città di Chandigarh disegnata dall’urbanista americano Albert Mayer e completata da Le Corbusier. Sorprendente nel vedere dopo decenni dalla sua realizzazione come la città sia simbolo di cura e vivibilità per tutta l’India.
Il disegno formale e le geometrie si alternano alle forme libere e spontanee degli slum di Mumbai e Delhi in cui case, negozi e botteghe dentro costipati edifici a due piani e viuzze ramificate affollano i ritagli rimasti tra quartieri occupando spesso aree pubbliche. Sacche di povertà ma con un loro funzionamento complesso pullulanti di vita e minacciati costantemente di sgombero e demolizione. Le grandi città con le loro enormi scie lasciano spazio ai villaggi e le cittadine immerse nella piatta e monotona campagna indiana. Lungo strade polverose si accalcano case e negozi tra povere case in mattoni con anziani alla porta scurati dal sole cocente della campagna.
La storia insediativa dell’India parte da molto lontano ma ci sono alcune fasi che ritengo fondative prima dell’invasione islamica.
Forse la più intrigante, di cui leggiamo ancora alcune tracce nel mare della storia è legata alle comparsa delle prime città fluviali lungo la valle dell’Indo (3500 – 1500 AC).
Una rete di insediamenti di cui rimangono ben visibili i resti di tre città principali, Mohenjo Daro, Harappa e Lothal costruite da popolazioni dravidiche successivamente emigrate nell’altopiano del Deccan. Queste città erano costruite su letti di mattoni crudi per difendersi dalle alluvioni. Avevano una parte fortificata come una sorta di ‘acropoli greca’. Mura con porte d’ingresso proteggevano la città bassa organizzata su griglie viarie regolari con case e botteghe sviluppate su edifici a due piani. Si trattava di forme evolute di urbanizzazione che evidenziano una società stanziale impostata sui commerci e la produzione agricola. Tuttavia, intorno al 1800 AC si registrò una forte crisi dell’urbanità ed un progressivo ritorno alla campagna.
L’abbandono delle città era attribuito un tempo alle invasioni ariane, popolazioni nomadi penetrate attraverso la catena dell’Hindu Kush che introdussero i veda e l’organizzazione sociale in caste.
Recentemente, gli studiosi tendono a scartare questa ipotesi in favore di probabili cambiamenti economici e ambientali che interessarono l’area spingendo gli autoctoni verso una progressiva migrazione. A partire dal sesto secolo prima di cristo, numerose città-stato emersero nelle zone ai margini della pianura gangetica con la costituzione del cosiddetti ‘sedici regni’ o mahayanapada.
Un periodo segnato dall’ascesa del buddismo e del giainismo che sfidarono il potere braminico delle caste, dei veda e la loro ortodossia. Con il successivo impero Maurya e la salita al potere dell’imperatore Asoka, i diversi regni furono riunificati sotto un’unica religione, quella buddista con la costruzione diffusa di colonne celebrative, stupa e templi.
La città indiana è tutto questo, un luogo che aggiunge, non sottrae, accatasta, non toglie.
Le architetture antiche sono emerse e sommerse in un flusso costante di persone in movimento, tra mestieri antichi ormai scomparsi nel nostro mondo, mendicanti, motorini, tuk tuk e umili carretti tirati a mano. Questa è la città indiana, tra polvere, sporcizia e inquinamento emergono architetture del passato da godere solo per un breve istante per poi tornare ad evitare buche, schivare mucche, vetture e cavi elettrici sospesi.