Le strade si aggrovigliano a kuala Lumpur,
Lingue di ferro cavalcano fiumi spogli,
veloci come treni corrono tra sgarbati argini ingrigiti dal tempo.
Ci si muove faticosamente tra noiosi grattacieli,
monotona continuità interrotta da edifici che odorano di colonia.
La città respira tra questi interstizi,
si anima affolando le strettoie che ridanno dignità all’anonimato moderno.
Cammino verso la stazione centrale,
percorsi pedonali come scarti lasciano spazio ad auto arroganti che dominano la scena.
Le strade da passeggio si incuneano tra i viadotti come serpenti spaventati dal rumore,
si attraversano spazi angusti ormai rifugi per tanti disperati.
Il marciapiede è divorato voracemente da una lamina di asfalto.
Il cielo è inquieto,
lampi ripetuti lo accedono cercando nervosamente spazio tra le nuvole.
Rinuncio.
Prendo il treno,
pochi minuti,
eccomi in stazione.
Rivedo la panchina dove ieri,
perso tra un ginepraio di accessi,
chiedo ad una signora lì seduta,
‘Do they accept credit cards to buy the metro ticket?’
Sorride aprendo il portafoglio,
‘You only need a few coins to get to your destination, take them please!”
Che gesto accogliente.
Un bell’inizio direi.
Mi perdo,
non riesco a trovare l’uscita per Brickfields.
Alzo lo sguardo,
No, Decathlon qui?
Entro,
tra una distesa di tappetini scelgo il mio per fare yoga.
La globalizzazione a volte ci rassicura.
Incomincio a sentirmi a casa.
Esco a fare un giro.
Mi perdo tra vie coperte da viadotti,
la pioggia riparte incessante,
un nubifragio violento si abbatte sulla città,
trovo rifugio a St. John church.
Mi siedo tra i larghi banchi in legno,
apro il mio kindle.
C’è una tempesta in corso.
La chiesa sembra sdraiata al suolo,
nella sua pancia i fedeli si sentono accolti.
Lo spazio si sviluppa in orizzontale con vetrate a tutta parete,
gusto neoclassico in salsa coloniale.
Architetture nostalgiche,
ricordi di europea,
fatti da coloni a cui mancava casa,
nell’illusione di ricrearla.
Spazi ponte tra immaginario e realtà.
Dietro a me c’è un signore,
in prossimità dell’altare dei bambini fanno le prove da chierichetti.
Si avvicina una signora,
li riprende senza pietà,
si gira verso di me, facendo l’occhiolino.
Domani c’è una grande festa di quartiere,
la chiesa è aperta,
la messa e poi giochi e cibo in cortile.
I ragazzi devono prepararsi.
Mary è indiana originaria del Tamil Nadu,
come l’8% della popolazione malese.
I suoi genitori venivano da Cochin nel sud dell’India.
Molti sono cattolici.
Il padre di Mary era segretario di un ministro.
Le sarebbe piaciuto fare carriera in polizia.
Lo avevo intuito dal dialogo precedente.
Carattere deciso ma accogliente,
mentre parla mi stringe la mano destra.
Le dico che sono Italiano,
mi abbraccia,
mi parla subito di papa Francesco,
grande personaggio,
concordo.
Bel viso, carnagione olivastra, occhi grandi e profondi coronano il suo esile corpo.
Ha un delizioso vestito rosso,
impreziosito da un orologio e due orecchini dello stesso colore.
‘God is looking at us, I want to be well dressed’
Troppo forte!
Mi chiede una mano per l’iniziativa di domani,
faccio una donazione per la parrocchia.
Non riesco a dirle che non sono cattolico,
ho paura che mi mangi.
Si allontana un attimo,
rifletto su come la Malaysia peninsulare sia un porto di mare,
tutti sono Malesi ma al contempo altro,
indiani, cinesi, europei,
figli di immigrati,
mercanti, contadini, minatori,
insieme ma divisi.
La pioggia si è fermata,
Mary mi accompagna fuori,
‘good luck, enjoy your stay’