I loro nonni possedevano dei terreni tra Tordibetto e Beviglie, e nel 1945 si offrirono di sistemare tutti e quattro i componenti della famiglia dentro la casa in fondo alla discesa: quella in provincia di Ancona era andata distrutta, con tutti i mobili e gli arredi, in un bombardamento aereo. La madre, cattolica fervente, si rivolse al Parroco per la cura dell’istruzione religiosa e scolastica del figlio più grandino: le avevano detto che c’era un prete di avanguardia, letterato e giornalista. Lui accettò e in estate cominciò le lezioni di latino, storia, geografia ed italiano, compilando a mano un quaderno che fungeva da libro. Ma per parlare di scienze don Otello si riferiva direttamente al creato: ai girini e alle rane, durante i giochi nei campi, o alle foglie che d’inverno perdevano colore e cadevano per fare posto a quelle nuove.
Per un ragazzetto, comunque, la poesia poteva finire quando gli arrivava tra capo e collo qualche scappellotto, necessario per fermare il ripetersi di errori invano urlati. Per Don Otello, invece, la poesia finiva, o forse iniziava, quando lui impugnava la zappa: si toglieva la tonaca, il collarino bianco da sacerdote, e indossate le scarpacce dell’orto cominciava a rompere le zolle più grandi oppure tracciava solchi ben allineati. Non era un lavoro sofferto e obbligato ma speranzoso: una buona medicina per l’attesa e per la fiducia, mai tradita, a lungo termine. Completava il quadro il profilo della sua persona fisica, curva per assestare i colpi della zappa in maniera giusta e quasi premurosa: come un gesto rituale serio e affettuoso, di consapevole convivenza tra elementi della stessa provenienza, differenti eppure complementari, perché parti di un medesimo Progetto.
Un sacerdote di cuore, di penna e di zappa.
Che sia benedetta – Fiorella Mannoia